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16 dicembre 1942: la morsa russa sugli alpini

di Marco Innocenti

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Accampamento militare delle truppe italiane in Russia allestito durante la campagna offensiva del 1942-43

Il 16 dicembre 1942 si scatena sul Don la controffensiva dell'Armata Rossa. Il grande fiume dei cosacchi è ghiacciato e la temperatura è da orso polare. Italiani, rumeni e ungheresi sono il punto debole delle armate di Hitler. Le nostre linee non hanno la forza per resistere alla mazzata e cedono di schianto. In quel mare di neve si infittisce l'incubo della disfatta e nelle mani delle madri, in Italia, si allunga la corona dei morti. Gli alpini sono sacrificati in retroguardia: l'ordine di tenere le posizioni li vota alla distruzione. Scriverà un testimone: "Il rumore della battaglia ci arrivava da sud come quello di mille carri su un acciottolato e nella notte di Natale, laggiù, il cielo aveva il colore del sangue".

Salta il fronte

Le veline del regime fascista, che esaltano "le gravi perdite inflitte al nemico", non possono nascondere la realtà di una disfatta. Il terribile urto frontale ha scardinato il fronte italo-rumeno. Gli italiani, che non sono motorizzati come i tedeschi, rischiano di essere aggirati in massa, con l'unica prospettiva della Siberia. E dalla Siberia non si torna. I cosacchi ci vengono addosso a valanga. Le nostre armi sono congelate, inchiodate, grippate dal freddo, le bombe a mano fanno solo rumore, il fucile è il vecchio '91, i carri armati sono scatole di sardine, le divise di finta lana sono adatte per gli inverni di Mondovì, gli scarponi sono gli stessi che usiamo in Africa. Siamo italiani "povera gente". E nella nostra debolezza ci sono tutte le premesse per un massacro.

La ritirata

A 40 sotto zero anche alla grappa non riescono i miracoli. Il 25 gennaio 1943 giunge l'ordine di ritirata, ma è ormai troppo tardi: il corpo alpino ha dato tutto se stesso. I nostri soldati in ritirata si trascinano sulla neve nella marcia della disperazione. Tra soffi di vento gelido, decine di migliaia di uomini vagano nella steppa, cercando un varco, una via di fuga. Chi cade non si rialza. I carri russi sono cani da caccia che non mollano la preda. Le piste sono segnate dai morti e dagli sfiniti che moriranno assiderati. Chi urla, chi piange, chi bestemmia, chi invoca la madre, chi combatte, chi muore.

Nikolaevka

Una biscia nera, lunga 40 chilometri, si snoda sulla neve. Erano andati a difendere la "millenaria civiltà europea". Ora disseminano, come scriverà un superstite, "lacrime e dita mozze, piedi verdi di cancrena, fame e pidocchi". Il 26, a Nikolaevka, il dramma degli alpini diventa leggenda. Come sassi di un torrente in piena si scagliano contro i russi: è l'ultima vittoria dell'armata senza speranza, un lugubre canto di morte. Molti cadono, chi esce dalla sacca non sarà più lo stesso. Il 31 finisce l'agonia dell'Armir. Degli alpini rimane ben poco: 6.500 i superstiti della Tridentina, 1.300 della Cuneense. La Julia è stata annientata, "penne mozze" che si sono sacrificate per tutti.

Il rimpatrio

Per riportare dalla Russia gli alpini bastano quattro tradotte; all'andata, tra canti, auguri, baci e giri di grappa, ce ne erano volute 55. Un giornale del 18 febbraio dedica un articolo alla Julia, agli alpini e alla loro terra. Peccato che la Julia non ci sia più. Sul muro di una strada di Tolmezzo qualcuno ha scritto: "W 1923, prima la patria poi la morosa".

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