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Alla ricerca del paesaggio

di Domenico Rosa

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4 gennaio 2009
Lorenzo Mattotti, paesaggio

«Avevo paura». Lorenzo Mattotti non si nasconde, raccontasenzapudori quel sentimento da naufrago che coglie un disegnatore di fronte all'ignoto di una nuova tecnica, o di una nuova ossessione che chiede con prepotenza di essere disegnata. L'oggetto della sua attenzione, in questo momento, è il paesaggio, che da contesto è diventato soggetto. L'uomo, che fungeva da baricentro per tutto il sistema di segni successivo alla sua presenza, il fulcro attorno a cui organizzare lo spazio circostante, scompare. La galleria Tricromia, a Roma, espone i suoi paesaggi in bianco e nero, sintetici, dinamici, incrocio delle diverse stagioni dell'autore. Un segno che deriva dai piccoli quaderni sui quali da anni Lorenzo lascia andare la mano quasi senza pensare, in uno stato di sonno vigile, una sorta di scrittura automatica, con cui nel tempo ha costruito un alfabeto. Su questo terreno Mattotti ha già sviluppato una consapevolezza, si percepisce la velocità, segno di una frequentazione assidua con un determinato linguaggio. E quando si raggiunge questo stadio le cose nascono da sole. Il titolo è Appunti sul paesaggio, ma non si tratta di schizzi di luoghi esistenti, piuttosto ami che pescano nell'inconscio dell'autore, che mescola immaginazione, ricordi e impressioni sulla campagna francese, la costa toscana, i paesaggi balinesi e le coste dell'Australia. La ricerca di Mattotti è iniziata dopo un viaggio in Patagonia: «Avevo scoperto quanto il mio sguardo fosse impregnato di quel luogo. Avevo letto il paesaggio come uno scanner. Non percepivo l'insieme, ma una serie di frammenti, nelle cui forme mi perdevo. Mi sono lasciato andare, ho seguito la melodia che quello sguardo restituiva dopo mesi. C'era qualcosa di musicale in quelle forme, dovevo solo seguire l'armonia con una specie di solfeggio personale». La monocromia sottintende molte cose, allude. Ma una cosa è disegnare il paesaggio, altra cosa è dipingerlo: «La spontaneità che usciva dai miei disegni a china e la sicurezza degli spazi e dei vuoti che improvvisavo sulla carta, quando dovevo affrontare la tela e il colore, d'un tratto scomparivano, lasciando spazio a composizioni insicure, rigide campiture, fatte di colori sordi e annoiati» ha scritto nell'introduzione al catalogo. Il colore costringe ad essere espliciti: «L'acrilico non ha il mistero della china, non è interiore, richiede di essere aperto al mondo e parlare con franchezza». A differenza dei suoi acrilici di qualche anno fa, in cui il colore era steso con velature molto liquide, trasparenze, sgocciolature, questa nuova serie è materica, il colore è spesso e coprente: «Avevo l'angoscia della crosta. Pensavo di non avere i fondamentali, non ho mai frequentato una scuola d'arte. Quando ho finalmente provato con la tavolozza ad agire come facevo con la china, ho disegnato con un blu un albero. Ho rotto un muro, ho scoperto finestre di piacere. Ballavo, non pensavo più».
Il risultato è Altrove, un esposizione alla galleria Nuages, a Milano: acrilici su tela coloratissimi con cui l'autore sembra spostarsi decisamente nel l'ambito della pittura: «Ho guardato molto i colori di Wayne Thiebaud. E poi David Hockney, la sua distorsione dello spazio in rapporto al movimento dello sguardo. Voglio arrivare a far coesistere segni diversi nella stessa immagine». Un esperimento affascinante non ancora definito compiutamente, una finestra da cui sbirciare su un ennesimo nuovo Mattotti. Si coglie una dimensione narrativa sotterranea, come se il paesaggio raccontasse se stesso. Una autobiografia della natura. «Ho sempre raccontato. La nostra è un epoca in cui tutto è narrazione continua e il fumetto racconta questo movimento in trasformazione. L'arte contemporanea lo rifiuta, ne usa le icone ma ne svuota l'essenza. Però anche il fumetto nasconde dei pericoli, come la continua attenzione alle convenzioni linguistiche, all'alfabeto di segni che lo caratterizza. Rispetto a tutto questo tento di mantenere una ingenuità che, spero, mi protegga dall'abitudine». È in uscita anche una stupenda raccolta di disegni su Venezia, città che l'autore ha frequentato a lungo, edito dal Consorzio Venezia Nuova, intitolato Scavando nell'acqua. Interessanti le chine colorate, molto compatte, quasi senza trasparenze, da cui si percepisce un bisogno di volume: «È la mia idea di Venezia. Ero molto preoccupato di disegnarla, dopo che lo avevano fatto grandissimi artisti del passato come William Turner, ad esempio. Ma lui aveva un'idea diversa, ha lavorato sulla distruzione della massa, i riflessi, le trasparenze. Per me l'essenza di Venezia è il mattone, che lotta in un corpo a corpo con l'enorme peso dell'acqua». Pare che per un artista sia necessaria un'ossessione: qual è quella di Lorenzo?: «Più che un'ossessione, è un bisogno. Quello di inseguire un tema che non ho ancora acchiappato, che si muove e continua ad aprirsi, moltiplicare possibilità. Penso che questo bisogno non mi abbandonerà mai».

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