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Basta soldi pubblici al teatro? Una provocazione che divide

di Paolo Bignamini

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25 FEBBRAIO 2009
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Basta con i soldi pubblici al teatro. Alessandro Baricco, su Repubblica del 24 febbraio, ha preso una ferma posizione sul sistema di finanziamento pubblico del teatro italiano. Lo scrittore torinese sostiene la necessità di un radicale cambiamento di prospettiva che abbandoni l'utilizzo dei soldi dei contribuenti per sostenere la prosa nazionale.


Al posto del sistema attuale - sto sintetizzando - Baricco invita ad aprire il mercato della gestione della cultura ai privati e, quindi, lasciare che le dinamiche teatrali si sostengano con un'economia di mercato. Si chiede lo scrittore: «Se uno pensa alla filiera di intelligenze e saperi che porta dal ministro competente giù fino al singolo direttore artistico, passando per i vari assessori, siamo proprio sicuri di avere davanti agli occhi una rete di impressionante lucidità intellettuale, capace di capire, meglio di altri, lo spirito del tempo e le dinamiche dell'intelligenza collettiva? Con tutto il rispetto, la risposta è no. Potrebbero fare di meglio i privati, il mercato? Probabilmente no, ma sono convinto che non avrebbero neanche potuto fare di peggio».

Io non ne farei una questione di merito, per cui le opinioni sul valore della musica di Allevi o del teatro di regia possono essere discordanti, quanto piuttosto una questione di metodo. O, se si preferisce, di sano realismo, di sopravvivenza.
Baricco non può non sapere che un taglio siffatto porterebbe all'immediato annientamento dell'intero sistema teatrale italiano (non solo quello dei Teatri Stabili e quello pubblico in senso stretto).
Quindi immagino si tratti di una provocazione al dibattito.

Benissimo, allora: è superficiale, e arbitrario, credere che una selezione di "valore" in economia di mercato sia migliore di un'analoga selezione basata sulla tutela pubblica di un sistema che, per sua natura, si pone al di fuori di tale meccanismo economico. E poi c'è già un teatro che vive di economia di mercato. E' quello cosiddetto commerciale. Il teatro sovvenzionato, che per tipologia coincide con quello di regia e di ricerca, se non viene sovvenzionato scompare. Potrebbe non fregare a nessuno. Ma tant'è.

Allora viene da chiedersi: non è piuttosto il caso di cambiare il meccanismo di accesso al finanziamento, che al momento non garantisce ricambio generazionale e meritocrazia? E poi: quale criterio di monitoraggio deve essere adottato per valutare questa meritocrazia? Le più moderne riflessioni in materia parlano di criteri misti, qualitativi e quantitativi.

La brutalità del mercato, invece, è una mannaia. Insomma, si parla di nazionalizzare le banche, e Baricco propone di commercializzare il teatro?

Infine, un breve accenno a quello che mi sembra il punto focale: il progressivo, costante, sottile ingresso di finanziatori privati nel mondo del teatro (soprattutto fondazioni bancarie) sta inesorabilmente sostituendo una parte di finanziamento pubblico delle realtà culturali italiane. Da un lato è ossigeno per la sopravvivenza, dall'altro un elemento di condizionamento.

Nei sistemi anglosassoni, il problema non sussiste, perché vi è un perfetto bilanciamento di poteri e competenze tra rappresentanze pubbliche e private. Quell'equilibrio che, non solo nel teatro, al sistema italiano sovente viene a mancare.

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