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Monet. Il tempo delle ninfee

di Delfina Rattazzi

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26 aprile 2009
Claude Monet, «Nymphéas. Effet du soir» 1897. Parigi, Museo Marmottan
Galleria fotografica

«Il giardinaggio è un'attività che ho imparato nella mia giovinezza quando ero infelice. Forse devo ai fiori l'essere diventato un pittore». Claude Monet si lascia andare a questa insolita confidenza negli anni della maturità, quando la sua vista declina. Monet ha acquistato la casa di campagna in Normandia, a 50 chilometri a nord di Parigi, in Normandia, nel 1890. Il momento coincide con l'impennata dei valori delle sue tele impressioniste, quando l'artista esce definitivamente dalle ristrettezze economiche. La proprietà di Giverny consiste in tre aree distinte: il giardino dei fiori, detto Clos Normand, di fronte alla facciata della casa, il giardino acquatico (dove metterà a dimora le ninfee) al di là della ferrovia, e l'orto-frutteto, coltivato in una proprietà separata, la Casa Blu. Dopo aver trascorso dieci anni a inventare le Clos Normand, e a ritrarre su tela le sue abbondanti fioriture, Monet rivolse la sua attenzione al terreno paludoso che si trovava in fondo alla proprietà, oltre la ferrovia. Comperò questa terra intrisa d'umidità e decise di creare un giardino acquatico. Non era impresa facile. Per farlo, il pittore dovette innanzitutto deviare il corso di un fiume, il Ru, per far entrare acqua fresca e ossigenata nello stagno. Chiese il permesso alle autorità locali per costruire due ponti di legno e istallare una pompa che – assicurò – non avrebbe abbassato il livello dell'acqua del connesso fiume Epte. Monet garantì anche che intendeva solo coltivare piante acquatiche.

Ma gli abitanti di Giverny si dimostrarono sospettosi. Temevano che le ninfee e gli altri cultivar esotici che l'artista voleva mettere a dimora si propagassero nei letti dei fiumi circostanti, avvelenando l'acqua. Gli fu negato il permesso. Monet non si arrese e chiese di nuovo l'autorizzazione di creare un giardino «che delizi gli occhi» e che provveda a fornirgli «soggetti da dipingere». Il giornalista C. F. Lapierre, molto influente nella regione, appoggiò il pittore con una campagna stampa e alla fine il prefetto cedette. Monet ottenne il permesso di iniziare i lavori. Nacque così il celebre stagno. Le radici delle ninfee furono collocate in basi di cemento sul fondo del laghetto, perché le piante non dilagassero diventando infestanti. Monet le considerò comunque troppo numerose e le fece sfoltire regolarmente: le foglie, infatti, impedivano all'artista di vedere la luce riflessa nell'acqua che diventerà un motivo dominante nei quadri dipinti negli ultimi anni. Il ponte sullo stagno è di chiara ispirazione giapponese, ma invece di dipingerlo di rosso corallo, come i ponti che si vedono nelle stampe di Hokusai e di Hiroshige, lo fa tinteggiare di un verde brillante.

La pergola sopra al ponte, coperta di glicini viola e bianchi, venne creata in un secondo tempo, mentre nel corso degli anni il bosco circostante si arricchì di nuovi alberi. Affascinato dalle potenzialità di questo nuovo luogo, silenzioso e tranquillo, Monet lo osservò a lungo, lasciandolo evolvere, prima di iniziare a ritrarlo su tela. «Mi ci è voluto molto tempo per capire le mie ninfee. Le avevo piantate per il gusto di piantarle, e le ho coltivate senza pensare di ritrarle... Non si assorbe un paesaggio in un solo giorno» dichiarò il pittore. Monet arrivava al laghetto prima dell'alba, mentre con gli amici insisteva perché lo vedessero prima del tramonto, quando si chiudevano i fiori di ninfea. Comperò anche una barca di legno con tettoia per scivolare sull'acqua e da questa barca, solidamente ancorata a riva con una corda, si metteva a dipingere. Oppure dipingeva da terra. La figliastra Blanche – che curò lo spazio verde dopo la scomparsa del pittore – scrisse che, per Monet, il giardino «era l'unica distrazione dopo la fatica e l'impegno spossante che metteva nella sua pittura».

Il giardino lacustre di Monet viene considerato un cup garden, un giardino a forma di coppa nella tradizione giapponese. «Se davvero avete bisogno di trovarmi un'affiliazione, scegliete i giapponesi del passato» dichiarò Monet a un giornalista. «Il loro gusto rarefatto mi è sempre piaciuto e apprezzo le implicazioni di una visione estetica che evoca una presenza con un'ombra e il tutto attraverso un frammento».

Il pittore collezionava stampe giapponesi nella tradizione Ukiyo-e. Le opere di Utamaro, Hokusai e Hiroshige sono ancora appese nelle stanze della casa di Giverny. Una vicina di casa di Claude Monet, Lilla Cabot Perry, pittrice impressionista che aveva vissuto a lungo in Giappone con il marito studiando arte giapponese, aiutò Monet a procurarsi le piante esotiche per il laghetto, aiutandolo a mettersi in contatto con vivaisti giapponesi. Arrivarono così, presso lo specchio d'acqua, le peonie erbacee e gli aceri che diventano rosso fuoco in autunno.

Monet, però, non accettava tutto quello che veniva dal Sol Levante: ad esempio non amava affatto i bonsai e neppure le cascate. E anche se inizia ad apprezzare i fogliami sovrapposti in lontananza, continua a mettere macchie di colore vivace che si riflettano nell'acqua: iris viola e gialli, astilbe rosa e azalee porpora.

  CONTINUA ...»

26 aprile 2009
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