Parlare di "fotografia di una generazione intera" sembra sempre più riduttivo per un reportage sociale, eppure l'indagine di Concetto Vecchio fa esattamente questo. Cattura la leva di chi è stato bambino con i cartoni animati giapponesi ed è diventato grande nell'Italia dei contratti a progetto. Il libro di Vecchio non è esaustivo (né, credo, si propone di esserlo), ma raccoglie una quantità di storie sorprendente. Bastano meno di duecento pagine a condensare una serie di ritratti terribili: praticanti legali non pagati, ricercatori senza speranza, giornalisti da 500 euro al mese, trentacinquenni con la psicosi del social network, giovani foggiani che sperano solo nei concorsi pubblici. E dall'altra parte? I giovani della sponda vincente: le miss Montecitorio, i top manager tutti avidità e ignoranza, Mariastella Gelmini e Nunzia de Girolamo. È forse questo il lato più interessante del reportage: mostrare che esiste anche una fetta emersa e stabile — sebbene molto inquietante — dell'ultima generazione.
Ma è a libro chiuso che ci si rende conto del problema autentico. E cioè: la grande congerie di dati accumulata da Vecchio quasi non appare più desolante, quasi non induce più alla rabbia. Le tante storie si appiattiscono come icone del già visto e già sentito, fino alla produzione inconscia di una dicotomia: "quello che è stato inghiottito dal sistema" vs. "quello che è andato all'estero e si è rifatto una vita".
Questo solo per dire che non c'è niente di sbagliato in queste righe, ma è come se la stessa possibilità di un reportage sociale sui trentenni italiani venisse messa in discussione dal nostro tempo. In altri termini: la condizione terribile dei giovani oggi è diventata una banalità — un fatto fondamentalmente accettato. E poche cose sono più amare di un problema reale percepito come banalità.
Giovani e belli
di Concetto Vecchio
Chiarelettere, pagg. 192, 14 euro