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Cari trentenni, non fate i Puffi

di Andrea Bajani

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23 maggio 2009
QUIZ / E tu che puffo sei?

Da Domenica - Il Sole 24 Ore
C'è stato un momento della mia vita in cui andavo su e giù per l'Italia e tutti mi chiedevano di produrre "identikit" dei trentenni italiani. Mi sedevo su una poltrona, accavallavo le gambe, e poi mi incalzavano: «Allora, questi trentenni?». Io mi schiarivo la voce, azzardavo un ragionamento, allargavo il campo alle altre generazioni, ma i miei interlocutori si stizzivano. «Un identikit, per favore». Poi mi imbeccavano «Siete precari...». Prima io resistevo poi capitolavo, restringevo il campo, convinto che ci fosse un modo per fare dei compromessi tra economia di parole e intelligenza argomentativa. Così producevo l'identikit, dicevo: «Noi trentenni», e tutti erano contenti. Alla fine dell'incontro l'intervistatore diceva «Sintetizziamo», e poi faceva una sintesi della mia sintesi, ripetendo esattamente quel che aveva detto prima di darmi la parola a inizio serata. In tre anni sono stato invitato a discutere a partire, tra gli altri, dai seguenti spunti: «I trentenni, tre aggettivi per definirli», «I trentenni sono tutti "Bamboccioni"?», «Ci parli della seduzione per i lavoratori precari», «Come si vestono, i trentenni?», «Arrabbiati: possiamo definirli così?», «È lecito parlare di sindrome dei trent'anni?», «Dei trentenni si dice che siano tutti mammoni. Ma due uova al tegamino lei se le sa fare?», «È più trentenne un ragazzo di 32 anni che lavora in banca o uno di 45 che lavora al call center?». Mi è stato anche chiesto, per un settimanale, dove andassero in vacanza i trentenni. Il servizio è uscito con il titolo: «Con le pinne, il fucile e i precari».
Esiste una tendenza tutta italiana all'autorappresentazione. È la tendenza a fare la fine dei puffi, quei pupazzi dalla grande fortuna televisiva il cui motto, cantato da milioni di bambini negli anni Ottanta, era «Noi puffi siam così». I bambini poi crescevano, e invece i puffi restavano così com'erano sempre stati, immutabili. Per tutti era molto rassicurante, che i puffi restassero quello che erano sempre stati. Puffetta era sempre vestita di rosa ed era amata da tutti, Puffo Quattrocchi diceva sempre «Che è meglio», Puffo Golosone mangiava le torte, Baby Puffo piagnucolava, il Grande Puffo diceva cose importanti, e tutti insieme «puffavano», perché puffare era il verbo con cui si dava forma, semplificando, a ogni azione. Nella loro autorappresentazione, i puffi neutralizzavano ogni imprevedibilità, erano così. Noi schiacciati contro i divani degli anni Ottanta accoglievamo la loro immutabilità con euforica noia. Imparavamo, guardando la tv, che le cose sono come dicono che devono essere. Perché i puffi rispondevano alle nostre aspettative, come ogni prodotto. Il cliente non vuole sorprese. Puffo Quattrocchi deve dire «Che è meglio», e lo dice. Puffetta deve essere amata da tutti, e la amavamo follemente anche noi.
C'è in parte il rischio di neutralizzare una generazione, nel libro di Concetto Vecchio, Giovani e belli. Un anno fra i trentenni italiani all'epoca di Berlusconi (Chiarelettere, Milano, pagg. 178, 14,00). È un rischio, io credo, che in parte va al di là delle volontà del suo stesso autore, ed è un rischio insito in ogni discorso generazionale. Perché Giovani e belli è un reportage bello e feroce, una discesa nell'inferno di «un paese annientato». «Quasi tutti rivelavano di essere scontenti: "C'ho l'angoscia". Alcuni, piegati da insuccessi privati o professionali, erano tornati a vivere con i genitori, altri meditavano di andare all'estero. Un quadro fosco. La convinzione diffusa che non vale la pena di lottare. E quando cercavano di dare una spiegazione alle loro frustrazioni, la risposta era immancabilmente la stessa: "In Italia è così"».
I trentenni di Concetto Vecchio, le storie che ha raccolto girando per l'Italia sono terribili, non lasciano speranza, sono spietate e amare nella loro evidenza. È il ritratto di una resa collettiva. Molti si sono arresi per sfinimento, perché delusi da un paese che non valorizza le sue risorse. C'è chi se n'è andato in Australia, chi in Belgio, chi emigra perché dice di non voler annegare nell'università italiana, chi per fare ricerca deve puntare su altri paesi e dice «in autunno emigro in Olanda o nel Regno Unito, dove pare che guardino il curriculum e la voglia di fare. Non ho voglia di invecchiare in un paese come questo». C'è anche la testimonianza di un quasi quarantenne, che ora vive a Barcellona: «Non voto da tredici anni. Non vi voto. Non lo meritate. Arrivederci Italia». Sono ritratti che per metà immalinconiscono per l'altra metà fanno arrabbiare, un po' per la resa, e un po' perché un paese che costringe alla fuga i "cervelli" è un paese in cui si è perso di vista (o si è capito molto bene) in che modo bisogna usarli. Accanto alle storie di precariato, di fuga e di delusione ci sono quelle, spietate per la lucidità con cui vengono raccontate, di uomini e donne annegati dentro internet, tra Facebook, blog e chat. A questi trentenni, delusi e fuggiti, con cui Concetto Vecchio solidarizza, vengono contrapposti altri trentenni, da cui viceversa si distanzia molto. Sono quelli che invece dall'Italia non solo non se ne vanno, ma ci lavorano, si spendono. Sono i ritratti dei «giovani e belli», o meglio delle "giovani e belle" dell'Italia di Silvio Berlusconi, sono le sue giovani ministre, dalla Gregoraci alla Carfagna alla Prestigiacomo: il velinismo politico, da un lato, e l'idea di una Gioventù da esibire come un programma politico per svecchiare un paese obsoleto. E dunque: i trentenni che decidono di non votare mai più, da un lato, e dall'altro i giovani chiamati a scendere in campo, a ricoprire dei ruoli, messi dentro una scheda elettorale come un panda nel simbolo del Wwf. Con un curriculum d'appoggio, ma prima di tutto come valore da esibire. Il giovane in quanto giovane, la gioventù come manifesto pubblicitario. Ecco, nel fare questi ritratti, che hanno il pregio della serietà dell'indagine e dell'efficacia descrittiva, c'è però sempre il rischio della profezia. C'è il rischio di adeguarsi a un'immagine che viene data, che appunto diventa una profezia. C'è il rischio di consultare questi spaccati autorappresentativi come fossero libretti di istruzioni per la costruzione di un trentenne. Quando mi chiedevano di parlare dei trentenni, io provavo a dire che non si può parlare dei trentenni senza parlare anche dei quarantenni, dei cinquantennni, dei diciottenni, perché è un sistema complesso, trasversale. Perché è limitante, parlare di generazioni. Ma poi mi tagliavano il discorso, mi chiedevano di semplificare, e io anche se pensavo di non farlo, semplificavo. E dunque i trentenni che sono precari, e l'Italia che butta a mare le risorse, noi trentenni siam così. Solo che alla fine della serata quei trentenni arrivavano e mi dicevano «Hai proprio ragione». Poi scuotevano la testa e se ne andavano via sconsolati, rassegnati, autoassolti e disperati. Ed eccoci arrivati al dunque. Tutto questo è esattamente funzionale a chi vorrebbe che non ci fosse una società consapevole e reattiva ma un mondo di puffi. Puffo Deluso, Puffo Emigrante e Puffo Giovane e Bello. Perché l'aspetto meraviglioso di questi pupazzetti blu era che dicevano «Noi puffi siam così», e poi non c'erano sorprese, non c'era nulla da temere. A noi non restava che stare a guardare, seduti sul divano, con la merenda in mano, euforici e annoiati.

23 maggio 2009
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