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Il fotografo di Auschwitz

di Alessandro Melazzini

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12 giugno 2009
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Presto a Wilhelm venne ordinato di non fare più foto agli ebrei: secondo la direzione del lager non ne valeva la pena, tanto morivano sempre più in fretta. «Alla fine dell'autunno del 1941 giunsero 11.000 prigionieri di guerra russi. Vennero ammazzati in maniera orribile, lasciati congelare nudi nella neve, mentre delle SS con le maschere a gas lavoravano intorno al blocco 11 per isolarlo. Quando tutto fu pronto, vi mandarono dentro i 600 soldati russi sopravvissuti, insieme a 400 malati». Fu il collaudo, perfettamente riuscito, per testare l'efficacia dello Zyklon B. Ma il crematorio di Auschwitz era troppo piccolo per tutti quei cadaveri, così nel vicino lager di Birkenau ne vennero edificati altri due, dotati di camere a gas. Stavano a poca distanza dai binari del treno, così da rendere più comodo l'assassinio di massa. Alcune SS scattarono sequenze fotografiche che mostravano le varie tappe della soluzione finale. L'arrivo del treno, le selezioni, lo spoglio degli averi, la camera a gas, i corpi ridotti in cenere. «Venni incaricato di sviluppare le foto e ordinarle in un album: volevano tenerlo come ricordo».

Uomini, donne e bambini. Brasse doveva ripendere degli indifesi come fossero criminali. «Non dimenticherò mai questa povera ragazzina» mi dice mostrandomi la foto di un'adolescente con un foulard in testa. «Una sorvegliante le ordinò di toglierlo, ma la poveretta non capiva il tedesco. La donna s'infuriò e senza aspettare che potessi tradurre prese a frustarla sulla faccia. Dio mio, quale crimine poteva avere commesso quella piccolina per meritare un trattamento simile?».
A parte i continui insulti, con lui i guardiani nazisti erano generalmente cortesi e talvolta in cambio di propri ritratti da spedire alla moglie o all'amata gli concedevano del cibo extra. Tra le SS più educate, un giovane medico che gli richiese delle riprese speciali. Foto di donne ebree nude. «Fu imbarazzante, pregai le custodi di mettere quelle povere ragazze in posa, io non volevo sfiorarle. Ma rifiutare di fotografarle non mi era concesso, pena la vita. Quando chiesi a cosa servivano quegli scatti, mi dissero che erano per degli esperimenti». Il dottore si chiamava Josef Mengele. «Per lui fotografai anche vari nani e dei gemelli. Ogni volta che aveva bisogno, me lo chiedeva con la massima gentilezza. Mengele fu la persona più terribile che incontrai. Krankenmann? Quello era una bestia. Ma come poteva Mengele comportarsi così educatamente con me e nello stesso tempo mandare in un sol giorno mille o duemila ebrei nelle camere a gas? Era una doppia natura. Ancora oggi quell'uomo è per me un mistero».

Altri medici gli ordinavano invece di fotografare ragazzini denutriti o l'utero estratto da ragazze addormentate col sedativo; per un certo periodo collaborò anche con un disegnatore impegnato a falsificare dollari. Ma la foto più incredibile scattata da Brasse ad Auschwitz ritrae una coppia di sposi. «Le nozze del mio amico Rudi Friemel. Era un meccanico austriaco bravissimo. Aveva combattuto nelle brigate internazionali durante la guerra civile spagnola. I tedeschi avevano bisogno di lui per riparare i motori diesel e gli concedettero persino di portare i capelli lunghi. Con il permesso di Himmler nella primavera del '44 la sua fidanzata spagnola poté raggiungerlo col figlio ad Auschwitz, e qui sposarsi. Le SS quella notte liberarono il bordello del campo permettendo alla coppia di trascorrere alcune ore d'intimità». Qualche mese più tardi Rudi venne preso durante un tentativo di fuga e portato alla forca seminudo.
Nel gennaio del 1945 le SS sentirono avvicinarsi l'Armata Rossa. Il suo capo ordinò a Wilhelm di bruciare tutte le foto, ma questi riuscì a salvare molto materiale perché i negativi erano ignifughi. Pochi giorni prima della liberazione lo caricarono su di un treno scoperto. Prima arrivò a Mauthausen, poi nel lager austriaco di Melk. «Il paesaggio era bellissimo, vicino al Danubio. Producevano cuscinetti a sfera in una fabbrica sotterranea ma io dovetti lavorare con pala e badile all'aperto. Dopo due mesi ero ridotto a pelle e ossa. Fu allora che, distrutto, maledii mia madre per avermi partorito». Nuovamente le lacrime scorrono sul viso di questo vecchio sopravvissuto all'orrore. «Invece gli americani mi liberarono. Ancora oggi mi pento di quello che dissi contro mia mamma».

12 giugno 2009
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