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Che faccia di grano!

di Alessandro Melazzini

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3 luglio 2009

Dicono che l'arte sia immortale, ma le sue opere svaniscono in un giorno. Eppure sono grandi. Grandissime. Come sei campi di calcio o forse ancora di più. Dario Gambarin è un pittore, ma la sua tela sono i campi di grano trebbiato e il suo pennello è l'aratro. Per l'esattezza un bivomere montato su di un trattore da 150 cavalli. Perché Dario ara la terra disegnando volti immensi, enigmatici, incomprensibili. Salvo ammirarli dal cielo. «L'idea mi venne dieci anni fa, dopo aver visto in Germania delle fotografie di "land art". Opere perfette, ma tutte calcolate, stabilite, tracciate lungo un percorso predefinito. Roba da ingegneri. E mi sono detto: sarà anche arte, ma così che rischio c'è?».
Gambarin allora torna in Italia e fa visita alla famiglia di agricoltori. Senza informare suo padre prende un trattore e comincia a dissodare un campo secondo la propria immaginazione. E solo quella. Quando il babbo se ne accorge gli viene un accidenti: ma sei diventato matto? Solo guardando le immagini aeree tutti capiscono che ha disegnato un volto gigantesco e fascinoso.
«Quando dipingo su tela è un'emozione, ma nei campi la vastità del quadro e il rischio di sbagliare senza rimedio mi coinvolgono totalmente». Siamo a Castagnaro, nella bassa veronese, dove Dario ha vissuto prima di trasferirsi a Bologna per studiare legge e diventare avvocato. Erano gli anni Ottanta, ma presto la professione gli andò stretta. «Scelsi di lasciare una via economicamente sicura per dedicarmi al sapere. Non possiedo beni materiali, ma questa tensione alla sopravvivenza mi rende la vita più fervida e interessante: l'arte ha bisogno di stimoli continui». Mantenendosi come musicista nei pianobar si diplomò all'Accademia di belle arti, si laureò al DAMS alla facoltà di lettere e filosofia e ottenne l'abilitazione come psicologo e psicoterapeuta. Una competenza, quest'ultima, che gli torna utile ogni volta che deve chiedere a un contadino di prestargli il campo per una sua performance. «Alcuni mi guardano sconvolti, non capiscono come posso "disegnare" senza un riscontro diretto e temono che danneggi il terreno. Io mostro loro le foto delle opere precedenti e spiego che la mia arte è ecologica e non altera alcunché. Intervengo su un campo solo nella breve finestra di tempo tra il raccolto e la semina».
Con i suoi volti Dario Gambarin piuttosto vuole arricchire la terra e rivalutare il paesaggio campestre, sempre più minacciato e aggredito, creando qualcosa di diverso e imprevedibile.
«Da giovane ho vissuto la campagna come una prigione. Queste sono zone che d'inverno la nebbia ti blocca la vista. E allora che fai? Te ne vai, per scoprire il mondo. Ma dopo aver girato ora sono tornato, riconciliato con essa grazie ai miei disegni».
Se, come dice un proverbio indiano, l'aratro è il fondamento di tutte le arti, impugnadolo come pennello Gambarin non solo mette in atto un personale ricongiungimento con la propria infanzia, ma mima anche un ritorno della civiltà umana alle proprie origini tramite l'utilizzo artistico di uno strumento primordiale. Il suo, direbbe Friedrich Schiller, è un ritorno "sentimentale" poiché anela all'ingenuità dell'inizio, ma lo fa con la consapevolezza di chi è divenuto adulto.
«Dario è una persona straordinaria perché usa l'aratro come strumento della propria creatività» ci spiega Pupi Avati, un ammiratore della prima ora di questo artista. «La sua è un'operazione in armonia con l'ambiente e non finalizzata a scopi commerciali, ma che obbedisce soltanto alla propria urgenza creativa. Un'iniziativa geniale».
Il campo trovato per la performance a cui assistiamo è di oltre 42.000 m2, collocato sghembo tra altri terreni. «Non importa, lo raddirezzerò nella mia testa» afferma sorridendo Dario, facendosi poi meditativo e taciturno. Studia ancora una volta il terreno immenso, colloca due paletti di orientamento, infine sale sul trattore rombante per avviarsi all'opera.
Passano dieci, venti minuti, e nulla accade: sta raccogliendo le energie, cercando di farsi tutt'uno col campo. Poi, improvvisamente, il bivomere affonda nel suolo e la terra rimossa incomincia a creare solchi, disegnare linee, tracciare percorsi misteriosi. Trascorre un'ora di lavoro e concentrazione, infine il trattore punta verso di noi, si ferma e Gambarin ne esce sudato ed esausto, ma ancora inquieto. È in attesa del voto, e il giudice arriverà volando.
Piano piano in lontananza il rumore di un aereoplano s'accresce, un Cessna si avvicina, volteggia alcuni minuti sulle nostre teste, infine si allontana ruotando le ali in segno di saluto. «Andare a prendere le foto è come ricevere una pagella» confessa Dario Gambarin emozionato «ma questa volta sento che l'opera è venuta bene. La chiamerò Giacinto. E vedrai, per l'occasione ho scritto pure una dedica». (da "Domenica Il Sole 24Ore")

3 luglio 2009
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