Un'occasione preziosa per capire da quale mondo, e da quali esperienze, proviene Art Spiegelman è la mostra itinerante – ospitata di recente dal Chazen Museum of Art, a Madison, Wisconsin – intitolata «Underground Classics: The Transformation of Comics into Comix, 1963-1990» (a cura di James Danky e Denis Kitchen, catalogo Abrams Comicarts, New York).
«Dopo Crumb, cos'altro resta da dire?», ci avverte un tizio che potrebbe essere Tom Waits in un fumetto disegnato da Will Eisner. Robert Crumb, già mitico negli ambienti underground degli anni '70, è oggi assai noto perché, come Spiegelman, può esercitare il suo genio sul «New Yorker». Ma a parte pochi altri – Justin Green, per esempio, o Jay Lynch, che firma l'introduzione – la sessantina di autori di cui la mostra espone opere, stampe, schizzi originali di copertine di magazine alternativi, fumetti autoreferenziali sulla storia del movimento e altri materiali e gadget vari, sono per lo più degli sconosciuti. E ciò a dispetto della qualità delle loro realizzazioni, che spesso ha poco da invidiare a Spiegelman o a Crumb.
Quella "x" di «comix» che per tre decenni, a partire dagli anni '60, ha distinto la disinibita comicità underground, all'insegna del motto «sex, drugs, and rock'n'roll», dai commerciali e standardizzati «comics» tradizionali dei supereroi e dei simpatici animaletti, ha avuto un impatto profondo sulla cultura americana e mondiale. Sia dal punto di vista dell'espressività artistica, tratto quanto mai evidente oggi amplificato dal web, sia da quello dell'economia editoriale.
Riviste come «Zap» o «Freak Brothers», nel momento d'oro del movimento, ai tempi del Vietnam, vendettero milioni di copie. I fumettisti underground mantenevano la proprietà delle loro opere, incassavano le royalties per il loro lavoro e furono in grado di creare un sistema di distribuzione alternativo ed efficiente, oltre a un ambiente completamente libero dalla censura. Hanno sperimentato una libertà cui stavano strette anche le tradizionali definizioni dell'epressività artistica.
«Abbandonata la presuntuosa idea di fare "arte" io mi preoccupo di affinare e comunicare idee capaci di cambiare la coscienza altrui. Anche questo è presuntuoso, ma è molto più divertente», scrive Justin Green, autore tra l'altro dell'autobiografico «Binky Brown Meets the Holy Virgin Mary», del 1972. «I fumetti sono solo un aspetto della mia arte. L'importante è adottare il mezzo capace di esprimere meglio ciò che si ha da dire, no? Semplicemente capita che il fumetto sia uno dei mezzi migliori in circolazione». Ora a parlare è Jack Jackson. Chi era costui? L'autore ed editore di «God Nose», uno dei primi fumetti underground, morto nel 2006. Ma soprattutto uno dei tanti che la pensano proprio come Spiegelman.