Si può divorare un libro sull'infinito? Sull'infinito matematico, si intende, quello serio, non su un qualunque infinito in salsa romantica. La domanda è retorica, ma le cose non sono andate in maniera affatto ovvia. Eccomi tra le mani il libro di David Foster Wallace, 42 anni, il più grande scrittore americano di oggi (così dicono i critici, e dopo questa esperienza devo dire che c'è proprio da fidarsi), con la fretta tipica del recensore alle prese con i tempi di chiusura del giornale. Lo apro un po' timoroso, armato di matita, pronto a sottolineare i concetti più importanti. Sfogliandolo avevo già visto che è pieno di formule, duecentosessanta pagine che appaiono densissime di idee e di concetti astratti. Inizio a leggere e mi trovo a sottolineare praticamente tutto. Anzi Tutto, e di più, come dice il titolo, che disgraziatamente riecheggia una fastidiosa pubblicità della Rai, di quelle che ti ricordano che devi ancora pagare il canone (ma, controllo, è un puro caso. Non è uno scherzo di cattivo gusto dell'editore italiano, era così anche in inglese: Everything and more).

Tutto e di più, dunque, perché, presi dalla foga di capire e di sottolineare ciò che è importante, da ricordare e segnalare, viene continuamente voglia di tornare sui propri passi e di rimarcare qualcosa che si era lasciato indietro e di cui si scopre subito dopo l'importanza. Come se si stesse mettendo in pratica un nuovo paradosso, nello stile della corsa tra Achille e la Tartaruga. É il paradosso della sottolineatura infinita: in uno spazio finito, una pagina o anche l'intero libro, si può continuare a sottolineare senza soluzione di continuità. All'infinito, appunto.
Tutto è importante in questa scrittura: l'arguzia, i racconti biografici dei personaggi - anzi, del personaggio, il grande Georg Cantor, lo scopritore del paradiso del transfinito, intorno al quale ruotano, grati, gli altri: Hilbert, Russell, Godel, ecc. -, i concetti astratti, spesso definiti da sballo o allucinogeni, la distruzione dei cliché e dei pregiudizi della divulgazione scientifica, uno humour e un'arguzia di un'originalità mozzafiato, che va di pari passo con la comprensione, reale e profonda, di idee non certo facili.

Quello di coniugare umorismo e spiegazione, per carità, è un vecchio trucco della divulgazione. Serve per fissare meglio nella memoria, con una battuta, i concetti più importanti. Spesso però produce mostri. Le battute si ripetono ossessivamente. Sembra che da qualche parte esista un Manuale del bravo divulgatore dal quale tutti attingono. E poi spesso l'umorismo è legato alla pura anedottica, e quindi non aiuta neppure a capire. Difficile, dopo qualche anno che si frequenta il genere, provare qualche sensazione nuova.
Ma David Foster Wallace è uno scoppiettìo continuo di idee nuove o di formulazioni insieme ardite e chiarificatrici, anche quando racconta storie o concetti che abbiamo già letto in decine di manuali di logica e di storia della logica. Perché di questo si tratta. Di una Storia compatta dell', come recita il sottotitolo: e persino qui Wallace ha voluto inserire un simbolo matematico, per sfatare anche il più trito dei luoghi comuni della divulgazione, quello secondo cui i libri che contengono formule sono destinati a un sicuro insuccesso.

Wallace fa di più: si inventa anche una serie apparentemente ridondante di abbreviazioni, come NCVI, che significa Nel Caso Vi Interessi, che dovrebbe segnalare quelle parti o troppo tecniche o divaganti e non particolarmente centrali che si possono saltare. In realtà è sconsigliabile farlo, perché è lì che spesso si trovano le perle migliori. A partire dalla prima, che è una autopresentazione dello scrittore in questa veste inedita di divulgatore scientifico-filosofico: Il vostro autore è un tizio con un interesse amatoriale di livello medio-alto per la matematica e i sistemi formali. Ha sempre detestato (con gli scarsi risultati che ne conseguono) qualsiasi corso di matematica seguito nella sua vita, con una sola eccezione, peraltro estranea al suo curriculum universitario: un corso tenuto da uno di quei rari specialisti che sanno dare vita e necessità ai concetti astratti, che quando tengono una lezione parlano veramente con te e di cui tutto quanto vi è di buono in questo libro è una pallida e benintenzionata imitazione.
Il suo curriculum è filosofico, e lo si capisce bene leggendo i suoi romanzi: La scopa del sistema e Infinite Jest soprattutto (editi da Fandango), o l'ultimo, Oblio (Einaudi), o gli scritti brevi, raccolti in volumi come Tennis, tivù, trigonometria, tornado, e altre cose divertenti che non farò mai più (minimum fax). Qui si può leggere, tra l'altro, un esilarante saggio intitolato Che esagerazione. Si immagina che a scriverlo sia il giovane filosofo americano H. L. Hix (a giudicare dalla foto, ha dodici anni), autore della dissertazione Morte d'autore. Un'autopsia. Si parla di derridiani e post-strutturalisti, per i quali tutto è interpretazione, al punto che a volte si sbagliano sul significato del loro stesso testo e a volte non hanno idea di cosa intendono. A volte, il significato del testo muta addirittura agli occhi dell'autore.

Di tutt'altra pasta è lo stile di Wallace, solo apparentemente eccessivo e divagante. Le sue capacità logico-matematiche si traducono in rappresentazione e influenzano la stessa costruzione sintattica, infilandosi ovunque, fin dentro le note, nelle quali si annidano spesso (soprattutto in Infinite Jest) i contenuti filosofici più sofisticati. Le soluzioni narrative sono paragonabili a vere e proprie argomentazioni, e sono autentiche palestre di precisione. Una lezione questa appresa in parte da Wittgenstein, protagonista indiretto de La scopa del sistema. Una ragazza che vive una serie di disagi esistenziali più o meno immaginari (mi manca chiunque) è alla ricerca della nonna novantenne miliardaria fuggita dall'ospizio. In gioventù era stata allieva di Wittgenstein a Cambridge, e aveva preso appunti alle sue lezioni. Una volta in cucina le aveva spiegato l'idea di Wittgenstein del significato come uso, per cui la scopa va chiamata così finché serve per scopare; se la usassimo per un altro scopo dovremmo chiamarla in un altro modo. Una lezione che accompagna la ragazza nella lunga ricerca della nonna, e nelle sue riflessioni sul sistema da cui si sente oppressa.

Ma veniamo a Cantor, l'eroe di questa sorprendente biografia di idee, nato nel 1845 e morto pazzo nel 1918. I casi di grandi matematici con problemi mentali hanno un'enorme risonanza per gli scrittori e i cinematografari pop moderni . Il Matematico Malato di Mente sembra essere oggi ciò che in altre epoche sono stati il Cavaliere Errante, il Santo Penitente, l'Artista Tormentato e lo Scienziato Pazzo: una specie di Prometeo, colui che va nei luoghi proibiti e ne fa ritorno con doni che noi tutti utilizziamo ma dei quali solo lui paga il prezzo. E così via fino a distruggere un primo cliché oggi tanto di moda. Ciò che importa a Wallace è la differenza tra essere semplicemente a conoscenza dei risultati di Cantor - come teoria del transfinito - e comprenderli: quest'ultimo è il progetto generale di questo libro e implica la visualizzazione della matematica transfinita come una sorta di albero, un albero con le radici negli antichi paradossi greci della continuità e dell'incommensurabilità e i rami intrecciati nelle crisi moderne delle fondamenta della matematica da Brouwer a Hilbert a Russell a Frege a Zermelo a Godel a Cohen.

L'albero si traduce in una fitta rete di narrazioni, dove di geniale, come nei romanzi, vi è una capacità stratificata volta a tener conto di tutti i possibili livelli di comprensione. Così avvicinandosi a uno dei concetti fondamentali di Cantor, la sua famosa diagonale, Wallace scrive: Nel tentativo di trovare un modo per confrontare le dimensioni di due insiemi infinitamente grandi, Cantor va a sbattere contro il concetto che oggi viene usato in quarta elementare per definire l'eguaglianza tra due insiemi, ovvero la corrispondenza uno-a-uno, o "C1-1". La corrispondenza uno-a-uno, come forse già saprete, è il modo per stabilire se due collezioni sono uguali senza doverle contare. I manuali usano ogni sorta di scenario per illustrare come funziona l'abbinamento della C1-1, per esempio le dita della mano destra/sinistra, il numero di spettatori/posti in un teatro, il numero di tazze/piattini in un ristorante eccetera. Il tropo prescelto dal professor Goris (tagliato perfettamente su misura per il suo pubblico) implicava il numero di ragazze/ragazzi a una festa, il loro accoppiamento per ballare e la verifica se fosse rimasto qualcuno a fare tappezzeria. Vi siete fatti un'idea.