Dovendo incontrare David Foster Wallace a Capri, in occasione del suo primo viaggio in Italia, è difficile non pensare ad Alberto Savinio. Non tanto perché all'isola egli ha dedicato un famoso libriccino, ma perché in generale la sua prosa, leggera e divagante, filosofica e intrisa di una vocazione civile e pedagogica, ricorda assai da vicino quella dello scrittore americano, la cui produzione pure si divide equamente tra quella letteraria - con romanzi fiume come La scopa del sistema e Infinite Jest (editi da Fandango) - e quella saggistica, a partire da Tennis, tivù, trigonometria, tornado, e altre cose divertenti che non farò mai più (edito da minimum fax, il cui scritto iniziale verrà riproposto da Einaudi in una raccolta di Racconti matematici), per arrivare al recentissimo Considera l'aragosta (anch'esso Einaudi), che ho tra le mani quando lo incontro all'Hotel Punta Tragara, dove si trova per partecipare (insieme a Zadie Smith, Nathan Englander, Jeffrey Eugenides e Jonathan Franzen) alle «Conversazioni» organizzate da Antonio Monda (conclusosi proprio con la relazione di Wallace).
Nato nel 1962 a Urbana (Illinois), scrittore di culto per i suoi romanzi, ma anche per operazioni intellettualmente spericolate come l'introduzione all'infinito matematico Tutto, e di più (recensito il 27 febbraio 2005), Wallace colpisce per l'originalità dello stile: argomentativo, improntato a una logica implacabile e a una rigorosa onestà intellettuale da liberal d'altri tempi, ma insieme vivace e incline a far proprie le modalità del linguaggio giovanile. «A pensarci bene - mi dice - io non ho idea di come si scrive un saggio. Nessuno me lo ha mai insegnato. Ho iniziato con la letteratura, e ho cominciato a scrivere saggi sulla soglia dei trent'anni, per guadagnare qualche soldo. Il mio stile è argomentativo semplicemente perché segue il mio carattere, il mio modo di essere. So che ogni argomento ha molte facce e io cerco di rendere conto di ognuna di loro. Ne risulta una certa confusione, lo so. Io mi auguro che sia una confusione interessante, ma confusione resta».

Non è questa l'impressione del lettore, che ritrova sempre il filo del discorso anche dopo lunghe digressioni, e che non si annoia neppure di fronte agli argomenti più astratti e complessi. Anche quando un dilemma morale, come quello cui allude il titolo del volume, di fatto non trova una vera soluzione. Dopo aver esaminato a fondo il problema della sofferenza delle aragoste, in un resoconto del festival di Miami che - spiega - «la rivista Gourmet, che me lo aveva commissionato, ha poi miracolosamente pubblicato», conclude chiedendo ai buongustai lettori della rivista: «Che cos'è che vi fa sentire veramente sereni, nel profondo, a liquidare l'intera faccenda?». Cosa che Wallace, non riesce a fare. Da allora ha dovuto cambiare abitudini alimentari, ma si rende conto che la maggior parte delle persone può vivere tranquillamente ignorando problemi come questi. Il tema sottostante è, dunque, «una sorta di autoinganno basato su una forte convenienza a continuare ad agire come se un problema non esistesse».

Si sente che Wallace ha avuto una formazione filosofica: «quando si studiano, da giovane, come è capitato a me, un certo numero di filosofi, questi diventano come una lente che permette di vedere tutto in una prospettiva diversa, uno dei modi per interpretare la propria esperienza. Wittgenstein, le cui riflessioni appaiono nei miei romanzi, certamente è uno degli autori più interessanti da questo punto di vista». Qualcuno ha pensato di definirlo post-moderno o post-strutturalista, ma ad allontanarlo da questa etichetta vi è una preoccupazione generale che riguarda la società americana, che spiega anche perché Wallace si definisce uno scrittore realista. La realtà, e la verità, per Wallace contano: non sono pure costruzioni prospettiche, secondo una visione che alla fine fa molto più comodo alle strategie culturali e comunicative dei conservatori.

Torniamo dunque allo stile. «Nei saggi, proprio, a causa della mia mancanza di professionalità, mantengo il punto di vista del narratore. Parlo direttamente al lettore, e l'io narrante non nasconde mai le proprie caratteristiche individuali: a volte è assai eccentrico, a volte trasandato, altre volte ancora molto complicato. L'importante è che forma e contenuto siano sempre strettamente legati tra loro». Il che spiega la predilezione di Wallace per i grandi classici dell'800: Dostoevskij, Tolstoi, Stendhal. E poi Kafka. «Autori che sapevano prendere posizione, sulla politica, la morale, la società. Oggi è un momento un po' folle per l'America. La cultura è dominata dall'intrattenimento commerciale, il cui messaggio implicito è un ossessivo: "senti qualcosa", "prova questa o quest'altra emozione". Gli scrittori seri si preoccupano quindi di differenziarsi da questa cultura melensa e sentimentale e cercano di essere più autentici. Ma nel far questo - come accade ai minimalisti - diventano ironici, estetizzanti, distaccati, fino ad allontanarsi inesorabilmente dai sentimenti reali della gente e dalle genuine questioni morali e politiche del nostro tempo».

«In America gli unici autori che oggi prendono posizione in un senso profondamente morale sono gli autori della destra di orientamento religioso, mentre la sinistra si limita a mostrare che le tesi della destra sono incredibilmente semplicistiche. L'America oggi, l'arte americana in particolare, sta attraversando una vera crisi, un'incapacità di rappresentare l'ideologia, la passione politica e l'impegno. La sinistra, per reazione, diventa molto più estrema e si rifugia nelle università. Ma gli americani nutrono una forte sfiducia nei confronti degli accademici e delle élite intellettuali. In America apparire troppo elitari è perdente: culturalmente e politicamente. Questo spiega perché abbiamo un presidente multimilionario, figlio di una famiglia ultraprivilegiata, ma che si presenta come un cowboy texano, interpretando una parte che fa guadagnare molti voti, anche se parla un pessimo inglese. L'amministrazione attuale si è mostrata assai efficace nel farsi eleggere, nel manipolare i voti, ma non nel governare: non riesce neppure a gestire un uragano e fornire gli aiuti necessari. L'America non elegge più coloro cui sta davvero a cuore la sorte dei cittadini, ma coloro che sono in grado di convincerli che si occuperanno di loro, anche se poi non lo faranno. C'è una enorme differenza tra le due cose, e la cosa mi fa molta paura. È questa preoccupazione che mi rende un po' vecchia maniera, e per niente post-moderno o post-srutturalista».