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Dare voce al cinema muto: i Giardini di Mirò musicano Il fuoco di Pastrone

di Giorgio Fontana

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11 settembre 2009

Ci sono due modi di ascoltare Il fuoco, l'ultimo lavoro dei Giardini di Mirò, fresco di stampa per etichetta Unhip.
Il primo è considerarlo come un album a sé stante: quello che loro stessi, sul loro sito, definiscono il "non solo un lavoro di sonorizzazione, ma il nostro disco nuovo".
Il secondo è lasciarsi guidare dalle immagini: perché Il fuoco è (anche) la colonna sonora dell'omonimo film di Giovanni Pastrone del 1916.

Non è facile fondere queste due prospettive in un orizzonte comune. Non so nemmeno se dovrebbe essere questo il compito di un ascolto critico: ma da qualche punto si deve pure cominciare.
Innanzitutto, il caso non è un caso isolato. Il Museo Nazionale del Cinema di Torino ha già commissionato ai Marlene Kuntz la colonna sonora di Signorina Else di Schinner. I Giardini di Mirò proseguono insomma una recente tradizione, la portano avanti con tutta la forza dei loro mezzi.

Quanto alla pellicola, Il fuoco parla di un pittore, Mario, la cui vocazione viene paralizzata dall'incontro con una famosa poetessa. Di fronte a questa contraddizione (terribilmente rétro, per molti versi — e terribilmente attuale, per altri), Mario sceglie appunto il fuoco. La passione. Lascia un biglietto alla madre: "Mamma non cercarmi. Sono felice, volo verso il sogno". Ma il volo dura poco come da tempi tragici: la poetessa sceglie di tornare dal marito e il finale è naturalmente terribile. Un ragazzo solo, in manicomio, circondato da origami in forma di uccelli.

In sé e per sé, il film è quanto di più dannunziano e anni '10 si possa pensare (e infatti la sceneggiatura nacque dalla collaborazione fra Pastrone e d'Annunzio). Musicarlo senza retorica non doveva essere affatto facile: ma fin dal primo ascolto, risulta chiaro che i Giardini di Mirò hanno svolto il compito in maniera straordinaria.
Di primo acchito questo può suonare paradossale. Com'è fin troppo noto, loro sono il gruppo post-rock italiano per eccellenza, i "Mogwai della penisola", la band nata dalle nebbie emiliane in grado di portare avanti l'avanguardia statunitense.

La realtà è un po' diversa, e il rischio è quello di appiattire un percorso espressivo di grande originalità, che ha saputo rinnovarsi e uscire dai sentieri tracciati del panorama internazionale. I Giardini di Mirò hanno sempre avuto una tendenza innata alla sperimentazione, e in questo senso Il fuoco è la tappa di un percorso di enorme valore artistico, che forse meriterebbe più attenzione anche da parte del pubblico mainstream.

Ma torniamo al Fuoco. Come dicevo, possiamo ascoltare questo album in due modi: ad occhi chiusi o guardando il film di Pastrone: trovarne le consonanze, mapparne la traccia comune. In entrambi i casi si tratta di un percorso non facile, ma ecco: quello che stupisce del Fuoco dei Giardini di Mirò è la sua perfetta ambivalenza, e il modo in cui i pregi del disco si compensano a vicenda a seconda del percorso scelto.

Dal punto di vista meramente compositivo, non sembrano esservi grandi variazioni. Il mondo delicato e invernale che il gruppo ha creato fin dai primi lavori resta intatto: arpeggi in minore e carichi di delay, pelli ovattate, ogni tanto un crash a mo' di onda. La voce di Jukka Reverberi è utilizzata unicamente come strumento. Le tre parti (La Favilla, La Vampa e La Cenere) ricostruiscono con cura la passione di Mario: da suoni più delicati a crescendo più energici, passando per attimi di silenzio quasi interlocutorio e tocchi marziali, fino a una sorta di marcia funebre che mischia musica contemporanea e carillon glitch, per poi deflagrare in un cenno rumoristico.

In realtà la vera forza di questo album sta proprio nello svelare il rapporto fra immagine e musica, nel senso più autentico e doloroso del termine. In genere si pensa che i creatori di colonne sonore siano grandi artigiani, in grado semplicemente di "creare atmosfere" e sottolineare la percezione visiva. La sfida dei Giardini di Mirò è quella di sovvertire questo rapporto dall'interno. Di farlo esplodere. Per questo un approccio puramente filologico (seguire ogni scena e discorrere di ogni particolare momento) mi sembra del tutto limitante.

Facciamo un esempio. Un concerto di Ennio Morricone avrà sempre un riferimento visivo esterno, e suonerà in qualche modo posticcio anche se magari splendido. Il Fuoco dei Giardini di Mirò invece non ha niente di meramente evocativo. Vive a dispetto delle immagini.
Mettiamola così: i Giardini di Mirò sono partiti da determinate atmosfere, da un determinato tessuto filmico, e hanno creato un magma musicale che è sì commento alle immagini, ma anche e soprattutto uno sviluppo indipendente. La passione di Mario non viene sottolineata: trova vita propria al di là del cinema, è raccontata dalle singole note. Lo spazio vuoto lasciato dalle parole viene così riempito da una musica che è realmente arte, e non soltanto "colonna sonora".

In questo senso, e solo in questo senso, i Giardini di Mirò hanno saputo dare voce autentica a un film muto. Consideriamo questo elemento, al di là dell'ossimoro: consideriamolo per quello che è, ridotto ai minimi termini: dare voce del nuovo secolo a un film muto del secolo scorso. L'incrocio fra questi due elementi non può che portare scintilla, e così la semantica è perfettamente rispettata: fuoco doveva essere, e fuoco sia.

11 settembre 2009
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