Svelare la nudità del re è sempre doloroso. Elencare i difetti di uno degli scrittori preferiti lo è altrettanto. Eppure un lettore appassionato di Ammaniti — quello epico e pieno di humanitas di Ti prendo e ti porto via — deve accollarsi questo compito, per quanto amaro: non fosse altro che per onestà e rispetto.
Che la festa cominci, dunque. Due sono le storie messe in campo: quella di Saverio Moneta, capo di una ridicola setta di satanisti romani, e il celebre scrittore Francesco Ciba. Il primo non ha niente. Carriera nella ditta del suocero, una moglie che non lo tollera, una seconda vita con tre poveracci passata ad adorare il diavolo in una dimensione più da gioco di ruolo che di autentica setta. Il secondo ha tutto: successo, ricchezza, donne, una casa a Roma e una alle Baleari — ma è in crisi e i suoi rapporti con la casa editrice stanno collassando. Entrambi sono alla ricerca di una svolta. Le due trame convergono così verso il luogo focale del romanzo: un'enorme festa organizzata a villa Ada da un mafioso arricchito, che per l'occasione mette in piedi una sorta di safari da ottavo re di Roma. Ciba viene invitato e si perde rapidamente nei meandri del party; Saverio si intrufola con i suoi sgherri per uccidere la cantante Larita e compiere, finalmente, un autentico sacrificio a Satana. Ma la festa — organizzata secondo le tracce di un safari e con tanto di belve importate dall'Africa — collassa su se stessa in un incubo di violenza e ironica assurdità.
Di primo acchito, quindi, Ammaniti sembra tornare a una sorta di pulp deviato, con un tocco carnascialesco che scuote. L'idea stessa di impiantare una festa terminale e globale a villa Ada è di grande coraggio. E i personaggi — politici da due soldi, tirannelli del mondo editoriale, cantanti e veline e calciatori — sono topici nella loro italianità e nella loro buffa stortura.
Purtroppo per Ammaniti, però, il risultato è una versione delirante di Indiana Jones o di qualsiasi altro film anni '80, privo di autentica verve e con un tocco di ridicolo involontario. È come per tutto il libro affiorassero idee interessanti, ma appena abbozzate: un incubo grottesco nel cuore della città eterna; il satanismo di quattro poveretti che adorano il male solo per giustificare la propria frustrazione e il proprio bisogno d'amore; la disperazione di uno scrittore paralizzato.
Ma tutto è all'acqua di rose. Non c'è alcuna profondità concettuale nel libro, e nulla che scalfisca anche solo di un millimetro la superficie degli eventi. L'incubo si rivela un b-movie, il satanismo come riscatto una farsa, e Fabrizio Ciba è un personaggio sì patetico, ma di un patetismo che non porta a nessuna forma di consapevolezza.
Attenzione, però. Tutto questo in linea di principio non sarebbe un problema, così come non lo è per molta narrativa di svago. Il vero problema è che l'azione, in questo libro, appare come continuamente fine a qualcos'altro — tende verso una dimensione che non raggiunge. Se leggessimo questo libro come mero intrattenimento, ne saremmo delusi (da un certo punto in poi, tutto diventa troppo inverosimile e caotico): ma anche se lo leggessimo come metafora di una società impazzita, saremmo delusi in egual misura.
In sostanza, il difetto di questo libro sta proprio nella sua mancanza di risolutezza in un senso o nell'altro. Non funziona né come divertissement né come romanzo terminale. A circa metà del libro, ci si domanda letteralmente perché Ammaniti abbia tirato in piedi un simile universo di cartone.
Cosa resta, dunque? Solo una trama ben congegnata e nient'altro. Troppo poco per salvare uno scrittore che anni fa ha saputo alzarsi a livelli straordinari di epica e umanità.
"Che la festa cominci" di Niccolò Ammaniti
Einaudi Stile Libero, pagg. 328, 18 euro