«Tutto quello che voglio è dipingere i raggi del sole sul lato di una casa». Scarna, mediamente "banale" - anche se incisiva - questa sua frase riassume con freddezza lapidaria gran parte della poetica di Edward Hopper (1882-1967).
Al pittore che più di tutti ha saputo rendere tempi, luoghi, memoria e soprattutto luce delle architetture americane è dedicata la antologica di Palazzo Reale. Una mostra che nel suo percorso - dai primi autoritratti fino alle case vittoriane del New England, passando per le luminose vedute parigine - ci trasporta di peso nelle atmosfere rarefatte e cariche d'attesa di questo artista. Interni ben delimitati, spazi freddamente compiuti e incombenti, tratti netti e marcati per narrare drammi middle-class dagli inquietanti finali con "the end" sempre aperti.
Ha attraversato Hopper dall'Età del Jazz alla guerra in Vietnam, eppure la sua arte è cambiata ben poco. Rimase lungo gli anni fedele al "realismo", anche se il suo è un realismo che sconfina dagli spazi angusti della messa in scena: finisce il pittore di Nyack per stregare lo spettatore ben oltre lo spazio museale e la permanenza in mostra. C'è qualcosa di arcano e surreale nella sua pittura silenziosa e calma, a tratti noir, spesso straniante, che perdura e segna ben oltre l'esperienza in mostra.
Le sue vedute nette e rarefatte sono sempre inquietanti. Non per niente la sua House by the Railroad del 1925 fece da modello alla celebre casa di "Psyco" di Alfred Hitchcock, con cui oltre alla passione voyeuristica per le inquadrature dalla "finestra" l'artista condivide anche la preferenza per le donne bionde e algide.
Attenzione (sic!), è proprio il caso di dire, alle donne di Hopper. Il pittore le spia da lontano: solitarie, nude, vulnerabili, convenzionalmente erotiche, talvolta ispirano sensuale tenerezza, tal altra distanza quasi misogina. Queste comparse solitarie (e sempre protagoniste), non sono che il misterioso rifrangersi, in variazione caleidoscopica, di un unico modello: la moglie Josephine Nivison, compagna di una vita. Suo il volto declinato alla finestra in Morning Sun, 1952, il nudo di A Woman in the Sun, 1961, il due pezzi esibito al sole in Second Story Sunlight, 1960. Modelle bionde illuminate dal sole, sullo sfondo colori saturi e rappresentazioni che trascendono il quotidiano per fissarsi nell'eterno, femminino e non solo.
La luce Hopper la scoprì durante la sua permanenza a Parigi per non abbandonarla mai più, facendone segno della sua pittura. Disdegnò Cezanne e Picasso, giurando fedeltà alla lezione di Manet e Degas. In anni di avanguardia le sue furono scelte controcorrente, fin dalla predilezione per le architetture vittoriane fortemente demodé. Fu lui a rendere brillanti quelle brutte case borghesi con tetti a mansarda, abbaini e ringhierine che già ai contemporanei apparivano come "vecchie signore tutte crinoline e inibizioni". Riuscì Hopper a catturarne l'insolita bellezza sotto i raggi del sole. E così pure riuscì a fissare l'essenza della vita nella frenesia della città moderna, ritagliandone gli spazi. Suggerendo la correlazione fra luoghi e funzione sociale. Di più: getta Hopper lo spettatore direttamente nella solitudine dei sobborghi più anonimi. (Luoghi siffatti li ritroviamo descritti con parole, come ben ha colto Aldo Nove in Si parla troppo di silenzio, negli scritti di Raymond Carver).
Nel celebre Nightawks, 1942, la tavola calda dell'isolato accanto si trasforma in un luogo per nottambuli da film noir. L'inquadratura allungata del locale proietta lo spettatore direttamente su un set cupo e inquietante. La tensione è alta, i colori acidi. Le ombre allungate addensano l'aria di mistero. Ma la via di fuga è preclusa, la permanenza raggelante. Il reale intanto sconfina nel cinema, e il cinema nel surreale: insomma con Hopper la banalità della rappresentazione trascende. Eppure più o meno tutti continuiamo a definirlo pittore realista. Ancora una citazione, diretta, di Alfred Hitchcock: «Sono etichettato, come regista. Se facessi Cenerentola, il pubblico cercherebbe subito il cadavere nella carrozza». Fuor di metafora, lamentò Hopper: «I critici ti affibbiano un'identità e tante volte sei tu stesso a dar loro manforte». A conclusione dell'introduzione di Carol Troyen al bel catalogo edito da Skira leggiamo una dichiarazione di Hopper: «Il mio ideale di pittura è sempre stato la trasposizione più esatta possibile delle impressioni più intime evocate dalla natura». Ecco, solo apparentemente realista si rivela Hopper in questa mostra milanese .
La mostra è promossa dal Comune di Milano e dalla Fondazione Roma in partnership con il Whitney Museum of American Art di New York, la Fondation de l'Hermitage di Losanna e Arthemisia Group.
L'esposizione contiene oltre 160 opere, tra cui i celebri Summer Interior (1909), Pennsylvania Coal Town (1947), Morning Sun (1952), Second Story Sunlight (1960), A Woman in the Sun (1961) e il mai prima esposto Girlie Show (1941). Suddivisa in sette sezioni, secondo l'ordine cronologico e tematico, la mostra è un ampio spaccato dell'intera produzione di Hopper. Si varia dalle incisioni ai bellissimi acquerelli, agli oli, con una particolare attenzione per i meticolosissimi disegni preparatori di un'artista che produceva al massimo 3/4 quadri all'anno. Dalla formazione alla permanenza a Parigi, fino al periodo più noto degli anni ‘30, ‘40 e '50 e agli intensi ultimi anni dell'artista. Si segnala nel percorso l'installazione interattiva, in linea con il gusto espositivo americano, dal titolo Friday, 29th August 1952, 6 A.M., New York. Grazie alla ricostruzione scenografica si consente ai visitatori di "entrare" nel dipinto Morning sun attraverso la proiezione su uno schermo.
Edward Hopper, Milano, Palazzo Reale, 14 ottobre 2009, 24 gennaio 2010. A cura di Carter E. Foster, Carol Troyen, Katy Spurrell. Catalogo Skira. http://www.edwardhopper.it/
stefano.biolchini@ilsole24ore.com
Edward Hopper (1882-1967)
Nato e cresciuto a Nyack una piccola cittadina nello Stato di New York, Hopper studia per un breve periodo illustrazione e poi pittura alla New York School of Art con i leggendari maestri William Mer¬ritt Chase e Robert Henri. Si reca in Europa tre volte (dal 1906 al 1907, nel 1909 e nel 1910). Le esperienze parigine lasciano in lui un segno indelebile, alimentando quel sentimento francofilo che non lo avrebbe mai abbandonato, anche dopo essersi stabilito definitivamente a New York, dal 1913.
Alto un metro e novanta, nonostante la forte presenza fisica, era famoso per la sua reticenza, scriveva o parlava pochissimo del suo lavoro. Scomparso all'età di ottantaquattro anni, la sua arte gode della stima della critica e del pubblico nel corso di tutta la carriera, nonostante il successo dei nuovi movimenti d'avanguardia, dal Surrealismo all'Espressionismo astratto, alla Pop art. Nel 1948 la rivista "Look" lo nomina uno dei migliori pittori americani; nel 1950 il Whitney Museum organizza un'importante retrospettiva su di lui e nel 1956 il "Time" gli dedica la copertina.
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