Era incagliato dal 1995, Avatar, come una delle creature marine che ossessionano da sempre James Cameron, mente dell'allora avveniristico Terminator (era il 1984), premio Oscar per Titanic con undici statuette nel 1997. Cameron, che possiede una flotta subacquea di sottomarini, voleva creare un universo fantastico, perfetto, come le assurde forme che popolano gli abissi, diverso, come gli amati mondi della fantascienza che riposano nel suo inconscio da quando è bambino.
Così il cinquantacinquenne regista canadese si è rialzato dalla depressione per l'insuccesso nel 2003 di Ghosts of the Abyss, abitato da alieni in salsa marina, e si è gettato nella realizzazione del suo sogno in 3D: Avatar. Una saga in fondo banale: la conquista terrestre di Pandora, una luna del pianeta Polyphemus, dove gli uomini piombano per mettere le mani sull'unobtainuim, minerale che può salvare la terra da una disastrosa crisi energetica. Per la missione l'esercito sceglie il marine Jake Sully, interpretato da Sam Worthington, inchiodato sulla sedia a rotelle. Sigourney Weaver, già sodale di Cameron in Aliens nel 1986, è la dottoressa Augustine Grace che collega le coscienze degli umani a un avatar, un corpo controllato a distanza che può sopravvivere all'atmosfera tossica di Pandora.
Grazie all'avatar Jake riavrà l'uso delle gambe, perdute in guerra, e viene infiltrato tra la popolazione Na'vi, che si oppone allo sfruttamento dei terrestri. Sully inizia la sua missione, assumendo le fattezze degli indigeni, esseri felini alti quattro metri, dalla carnagione blu e gli obliqui occhi gialli, dotati di una lunga coda e di un credo che pian piano scalfisce le convinzioni del soldato. Ma la molla vera della riconversione del marine è l'amore per Neytiri, una donna Na'vi che gli salva la vita. Neytiri, (in carne ossa Zoe Saldana) soffia come un gatto davanti al pericolo, ha le orecchie appuntite, ma è una creatura che travolge Jake col suo sensuale coraggio, facendo risvegliare, per ironia della sorte, il senso di umanità del marine, convertendolo alla causa indigena contro l'avidità dei terresti.
La scommessa però non è sulla trama, che pur nella sua semplicità è avvincente, ma sul coinvolgimento dello spettatore, che non vedrà, ma – promettono – sarà dentro al film. Gli sembrerà di planare a dorso del Banshee, una creatura dalle fattezze di un aquila, dalle montagne fluttuanti all'umida vegetazione fatta di fiori con i petali a spirale, nei salti gibboneschi tra le liane, nel faccia a faccia a tradimento con belve dalla pelle cangiante. Battaglie così vere da far cavare di fretta per lo spavento gli occhialini tridimensionali a chi ha sperimentato la visione dei 25 minuti del progetto pilota. Il film è stato girato in Australia e le macchine da guerra, robot che nel loro ventre ospitano soldati che li guidano, in un rapporto uomo-macchina che si era già consolidato in Terminator, sono stati creati a grandezza reale con una maniacalità che li ha resi quasi abili alle azioni che vedremo sullo schermo.
Più della metà del film è stata girata con gli effetti speciali, con la 3D Fusion Camera, un tipo di cinepresa ad alta definizione in 3D, a cui il regista stesso ha dedicato sei anni di lavoro. Nelle altre scene gli attori hanno recitato, bardati con una tuta nera coperta di sensori sul viso e sul corpo, mentre i loro movimenti venivano poi processati al computer. La stessa precisione usata per una lunghissima post produzione agli Stone street studios di Wellington in Nuova Zelanda. Precisione costata 237 milioni di dollari, il più grosso budget della storia del cinema, ogni fotogramma è stato lavorato per 25 ore, ma alla fine tra promozione e annessi si arriverà a spendere 300 milioni dollari. Si grida al film del secolo. Manca poco per verificare di persona. In Italia sarà nelle sale il 15 gennaio, chi può lo vedrà in America dal 18 dicembre.