Quando iniziai a lavorare sul primo abbozzo di Avatar, nel 1995, le parole sgorgarono con la stessa forza di un fiume che abbatte una diga e fu come se il testo si scrivesse da solo, in appena tre settimane. Fin da bambino avevo riempito il bacino di quella diga con immagini tratte da un migliaio di romanzi di fantascienza e centinaia di film; l'avevo arricchito con ogni singolo elemento fantastico mai creato, con ogni singola copertina di riviste come «Analog» ed «Eerie». In più, nel turbine di idee che hanno alimentato Avatar si sono fatte strada anche le mie esperienze negli oceani, dalla profusione di esseri viventi che popolano l'ecosistema delle barriere coralline alle forme bizzarre che si nascondevano nell'oscurità degli abissi, appena fuori dal campo visivo del nostro sommergibile. Ma una volta completata la prima stesura, piena di ogni sorta di creature e ambienti mai visti, eravamo solo all'inizio del lavoro. Perché tutta quella miriade di cose esisteva solo come un'ombra nella mia mente, un surrogato, per così dire, della realtà completa che avrebbe visto la luce grazie a una progettazione accurata.
Il processo creativo di un film come Avatar richiede la partecipazione di molti artisti e di molte menti che si uniscono per una causa comune.
Dopo aver cercato e selezionato i migliori in tutto il mondo, li abbiamo lasciati liberi di esprimersi: subito si sono scatenati in tutte le direzioni, ampliando il campo ben oltre i limiti che avevo immaginato. Mi sono visto costretto a richiamarli all'ordine, persuadendoli a tornare alle idee originali così come le avevo formulate. Naturalmente non si è trattato di un sistema rigoroso, poiché le creature non esistevano ancora come forme definite, ma solo come pallidi fantasmi, ipotesi, esseri in potenza. Eppure quelle sagome sbiadite sono bastate a guidare la fase di progettazione, e così, in una maniera che a questa squadra di artisti eccezionali sarà sembrata quanto meno arbitraria, ho passato al setaccio le idee finché le forme e i colori degli animali hanno iniziato ad affiorare. Quando avevo un'idea molto precisa, la disegnavo io stesso, come nel caso del Thanator e del Viperwolf. Ma si è trattato quasi sempre di un'evoluzione lenta, con le idee che emergevano e sopravvivevano o meno alle risoluzioni del gruppo in un meccanismo quasi darwiniano. Il principio guida adottato per tutte le decisioni si riassumeva nella domanda che ponevo sempre agli artisti: qual è la metafora? Che cosa cerchiamo di comunicare con questa creatura? Se deve essere un cavallo, che cos'è, nella sua essenza, un cavallo? Così il cavallo che ne è venuto fuori era alto quattro metri e mezzo, aveva la corazza come un dinosauro, strisce viola, sei zampe e una lingua di un metro per succhiare il nettare, ma è innegabile che fosse comunque un cavallo, proprio come è innegabile che il Thanator sia una pantera e che il Viperwolf assomigli a un cane.
La Banshee è la creatura più importante del film, perché nel corso della storia scopriamo che il volo è fondamentale per la civiltà dei Na'vi e che esiste un legame speciale tra il guerriero e la sua cavalcatura alata, proprio come tra il cavaliere medievale e il suo destriero. Alcuni dei primi studi avevano un aspetto davvero alieno, che faceva pensare a una manta o a un caccia; poi, nel tentativo di tornare a forme più familiari, abbiamo rischiato la banalità con gli pterodattili e i draghi. L'obiettivo è diventato quello di combinare le due realtà in modo originale; conservare la metafora creando un senso di familiarità per il pubblico, ma aggiungere sempre dettagli inconsueti. L'immagine che ho proposto non era né lo pterodattilo né il drago, ma l'aquila: un grande uccello da preda, un rapace che quando scende in picchiata è rapido e implacabile. All'atto pratico, la Banshee ha assunto le caratteristiche di creature con il dono del volo note a tutti: ha le membrane alari degli pterosauri, gli artigli a uncino del pipistrello, gli occhi vigili e l'estremità delle ali allargata dell'aquila. Ma il meccanismo della mandibola è simile a quello del barracuda, i colori ricordano la rana velenosa dell'Amazzonia e i denti sono mobili come nella vipera. E le narici, situate all'ingresso della gabbia toracica come la presa d'aria di un caccia, non hanno uguali sulla Terra: lo spettatore deve sempre ricordare che si trova su un pianeta alieno.
Neville Page, Yuri Bartoli, Daphne Yap e gli altri progettisti delle creature hanno messo in tavola una tale varietà di idee da rendere ardua la scelta. Poi sono intervenuti John Rosengrant e il team di artisti dello Stan Winston Studio, che si sono occupati dei Na'vi e degli avatar, e la storia si è ripetuta. Da questo fruttuoso processo è nata la bellezza aliena di Neytiri e del suo clan, ma anche la figura degli avatar, in cui si colgono con chiarezza i tratti di Sam Worthington e Sigourney Weaver.
La progettazione di Pandora e dei suoi diversi ambienti ha richiesto la stessa dose di immaginazione. Rob Stromberg ha coordinato una squadra di artisti incaricati di creare letteralmente un nuovo mondo e con le sue tavole luminose e piene di fantasia ha stimolato il gruppo a emularlo. Anche in questo caso l'intento era di inserire elementi alieni in un ambiente familiare: a prima vista devono emergere gli aspetti conosciuti e quindi identificabili come reali, ma a un esame più attento ci si rende conto delle stranezze. Montagne rese con precisione fotografica che tuttavia fluttuano sospese nel vuoto, come in un quadro di Magritte; piante che sembrano provenire dal microcosmo delle barriere coralline terrestri, ma le cui dimensioni colossali le rendono aliene ed esotiche nella foresta di Pandora.
Tuttavia avevamo risolto solo metà del problema. Perché Avatar parla di uno scontro di civiltà, e la civiltà tecnologica della Terra richiedeva altrettanta cura nella progettazione e lo stesso rigore nell'applicazione della metafora. Rick Carter, che ha coordinato l'intero processo creativo, aveva il difficile compito di mettere a punto macchinari che non solo fossero efficaci visivamente, ma che potessero anche essere costruiti davvero: infatti, a differenza delle Banshee, dei Leonopteryx e delle altre creature e ambientazioni elaborate solo al computer, il mondo degli umani andava ricreato dal vivo. Ben Procter, Dylan Cole, James Clyne, TyRuben Ellingson e gli altri hanno tappezzato le pareti con un'infinità di idee da cui sono nate le macchine di Avatar, tutte con un aspetto fantastico e al contempo plausibile e abbastanza efficaci da funzionare davvero.
Lavorare con un gruppo così pieno di talento è il sogno di ogni regista ed è stata un'esperienza impareggiabile per me. Spero che questi artisti siano orgogliosi quanto me di ciò che hanno creato: un mondo in cui ci avventuriamo a nostro rischio e pericolo, perché può darsi che non vogliamo più andarcene.