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Schiavi della Compagnia

di Michela Catto

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28 novembre 2009
Nella foto: Vade retro. Stampa del XVIII secolo che rappresenta padre Daniele, un gesuita che si specializzò nella conversione degli indiani d'America, mentre ferma con il crocifisso un gruppo di irochesi che assaltano la sua missione. L'immagine rappresenta bene le difficoltà incontrate dai missionari nel processo di evangalizzazione

Dal loro arrivo sino alla loro espulsione dal Brasile, avvenuta nel 1759, i gesuiti utilizzarono, come gli altri ordini religiosi e i coloni europei, la manodopera amerinda e africana e praticarono il commercio degli schiavi dall'Angola, prima provincia degli ignaziani in Africa. Nel 1640 un visitatore contava nel solo collegio gesuitico di Rio de Janeiro la presenza di ben 600 schiavi, quasi tutti africani.

Come conciliare questa realtà storica con una storiografica, non solo apologetica, che ci ha abituato a pensare ai gesuiti come ai difensori della libertà degli indios, oppositori morali della loro schiavitù e promotori di una umanizzazione della schiavitù dei neri? In parte con le origini relativamente recenti della storia della schiavitù che ha dovuto affrontare tutta una serie di cliché, molti dei quali sorti nel XVIII secolo dallo scontro tra abolizionisti e filoschiavisti.

Per la storia della Compagnia di Gesù si aggiunge il fascino esercitato dalle riduzioni paraguaiane: da Ludovico Antonio Muratori e il suo Il cristianesimo felice nelle missioni dei padri della Compagnia di Gesù nel Paraguai (1743), con la sua esaltazione della Chiesa primitiva, alle interpretazioni che hanno fatto di questa particolare esperienza d'evangelizzazione una trasposizione delle teorie di Platone, Tommaso Moro, o di Campanella. Nel caso specifico del Brasile la figura dei gesuiti baluardi e difensori degli indios scaturì sia dagli studi dei testi prodotti dai teologi gesuiti (che si espressero sempre nei termini del pensiero scolastico tomista applicato, in maniera talvolta parossistica e cinica, alla casistica portoghese) senza indagare la realtà storica della missione brasiliana o africana, sia dall'antagonismo creatosi sin dall'inizio tra l'ottimo rapporto esistente tra i gesuiti in Brasile e la monarchia portoghese e il pessimo rapporto di quest'ultima con i paolisti, «gente ribelle e fuorilegge ... che vive senza freno e timore del castigo dei governatori». Il dettagliato, e privo di ogni intento polemico, studio di Zeron affronta da quattro diverse prospettive (storica. giuridica, teologica e storiografica) il modo attraverso cui i gesuiti "razionalizzarono" la loro pragmatica posizione verso la schiavitù.

Manuel de Nóbrega, primo superiore della missione brasiliana, contribuì a gettare le basi del gesuita giusto, moralmente e politicamente, rendendo la Compagnia di Gesù de facto mediatrice del potere politico portoghese. Tra i coloni, "diavoli" e responsabili dell'instabilità politica della colonia, i preti secolari "cattivi" e i gesuiti "virtuosi" fu posto l'indigeno "nudo" e "selvaggio" a cui si potevano offrire solo due alternative: il divenire protagonista di un processo di educazione religiosa e di civilizzazione promossi dai missionari o di una "perdita" definitiva a causa del suo coinvolgimento nei comportamenti illeciti dei coloni. Secondo il principio agostiniano, la cattività del corpo non implica quella della sua anima, così il lavoro forzato degli indigeni è strumento di inculturazione, il mezzo per trasmettere i valori essenziali della civiltà cristiana occidentale.

La schiavitù degli indigeni divenne in questo modo non solo sostentamento materiale delle missioni gesuitiche, spesso in competizione economica con le attività dei coloni, ma anche definizione della identità politica gesuitica. Dietro il regime "tutelare" degli indigeni si disegna un progetto di tutela di tutta la società coloniale che si giustifica a partire dalla potestas indirecta che la Chiesa deve esercitare legittimamente in caso di degenerazione dell'ordine morale, ostacolo alla salvezza. Il ruolo dei gesuiti in Brasile è l'educazione tanto dei «bambini senza barba» quanto dei coloni, del buon cristiano – l'indigeno – al pari del cattivo cristiano – l'europeo.

Ogni gesuita dissidente da questa linea fu rimpatriato e le numerose istruzioni romane contrarie alla schiavitù furono ignorate. Si iniziò a parlare di libertà degli indigeni solo quando si fece strada con certezza la possibilità di una loro sostituzione con gli schiavi africani: fu questo il compromesso dei gesuiti con il potere coloniale brasiliano.

Carlos Alberto de Moura Ribeiro Zeron, «Ligne de foi: la Compagnie de Jésus et l'esclavage dans le processus de formation de la société coloniale en Amérique portugaise (XVIe-XVIIe siècles)», Paris, Honoré Champion, pagg. 574, euro 67,00.

28 novembre 2009
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