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Vittoria e l'arte dell'impero

di Roberto Bertinetti

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22 novembre 2009
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"Finalmente sola!", annotò sul diario poche ore dopo che, all'alba del 20 giugno 1837, l'arcivescovo di Canterbury e il Lord Chamberlain la svegliarono per comunicarle che, a causa della morte dello zio Guglielmo IV, era diventata sovrana del Regno Unito. Le parole della principessa appena diciottenne, sottolinea Richard Newbury in La regina Vittoria, testimoniano la forza del carattere e la determinazione di questa donna destinata a guidare una nazione verso la conquista dell'impero più vasto della storia. In precedenza si era sentita soffocare, in particolare a causa dell'invasività materna. L'ascesa al trono le permetteva di essere indipendente e la saggezza di cui diede prova sin dai primi atti stupì gli stretti collaboratori ("sembra abbia un'esperienza di decenni", commentò il segretario del Consiglio privato) rendendola immediatamente popolare tra i sudditi.
Storico e giornalista, Newbury riassume con prosa brillante la leggendaria esistenza di Vittoria (di cui aveva già dato conto in una serie di articoli usciti sul Foglio rielaborati per scrivere questo volume) senza celare i difetti di una signora a volte "caparbia e arcigna". Il segreto del suo trionfo, precisa, fu quello di assumere a fondamenta valoriali del trono le idee della borghesia trionfante. Un'idea condivisa da Antonio Caprarica, autore di una nota introduttiva al libro dove si sottolinea il netto cambio di rotta imposto da Vittoria, dopo gli eccessi dei predecessori, che garantì la sopravvivenza di una dinastia in pericolo, diventata grazie a lei "una famiglia normale, tutta affetti, pudori e decoro" nella quale la middle class si identificò in fretta.
Newbury non manca, comunque, di mettere in luce la distanza che in alcune fasi della sua lunga esistenza separò le virtù pubbliche dai vizi privati. Tra questi ultimi insiste in particolare sui rapporti, platonici ma strettissimi, che la legarono a Lord Melbourne prima del matrimonio con il principe Alberto e, dopo la prematura scomparsa del marito nel 1861, a John Brown, servo scozzese guardato con sospetto dalla corte e dal governo a causa di un'amicizia ritenuta da Lord Derby "assurda e per lei disdicevole".
Il biografo ricostruisce la benefica influenza esercitata da Alberto sulla moglie e il ruolo avuto dal "principe consorte" nel suggerire con discrezione alcune riforme politiche di fondamentale importanza. Quando morì di tifo la regina si mostrò inconsolabile e scrisse sul diario: "La mia vita di persona felice è finita! Per me il mondo è finito. E' tutto troppo terribile e crudele!". A salvarla dalla depressione e a impedire una rovinosa crisi istituzionale fu l'impero, afferma Newbury. Un'ipotesi suggestiva e poco esplorata sino a oggi dagli studiosi, alla quale è dedicata la seconda parte del volume in cui viene offerto largo spazio alle principali figure che lo costruirono e lo plasmarono sulla base dei valori vittoriani.
A differenza di quanto fatto dai loro antenati o da altri popoli, gli inglesi del XIX secolo non volevano dominare il mondo ma redimerlo. "Il simbolo di questo nuovo ethos – nota Newbury – fu David Livingstone, il quale credeva che i pilastri originali di un impero (il commercio e la colonizzazione) fossero elementi necessari ma non sufficienti senza la presenza di un terzo pilastro: il cristianesimo. L'impero doveva essere fatto ‘rinascere' in senso cristiano". Ma senza la rivoluzione morale imposta in patria dalla regina questo disegno sarebbe stato condannato al fallimento.

Newbury documenta come nel 1837, quando Vittoria salì al trono, la maggior parte dei britannici riteneva le colonie "una distrazione e una spesa per niente gradita per un paese industrializzato". Pochi decenni più tardi ben pochi abitanti dell'isola erano rimasti della medesima opinione perché l'idea di impero veniva ritenuta parte fondamentale dello spirito nazionale. Il "fardello dell'uomo bianco" di cui parlò in seguito Kipling non era, dunque, uno slogan di facile presa ma una "missione civilizzatrice" voluta e promossa da Vittoria, un compito al quale nessuno poteva sottrarsi.
"Essere nati inglesi significa vincere il primo premio nella lotteria della vita" affermava Cecil Rhodes. Il padre dell'espansionismo in Africa era poi certo che "noi siamo la prima razza al mondo e più regioni del pianeta occupiamo tanto più ciò torna a vantaggio del genere umano". Fu proprio sulla base di simili idee, sottolinea Newbury, se i vittoriani riuscirono a conquistare circa un quarto della superficie terrestre. Vittoria ebbe un ruolo cruciale nel promuovere e sostenere il progetto imperiale, dal cui trionfo il trono ricavò un'immensa popolarità.
L'ottimo saggio di Richard Newbury offre al lettore una nuova chiave di lettura delle vicende private della sovrana e della genesi dell'imperialismo. Quando morì nel 1901, scrisse Lytton Strachey, la reazione dominante fu lo stupore "come se dovesse prodursi qualche mostruosa rivoluzione naturale perché per i sudditi Vittoria era diventata parte inseparabile del loro ordine di cose e l'idea della perdita si scontrava con un sentimento di incredulità di fronte all'impossibile". Il suo merito maggiore resta quello di aver fatto diventare la monarchia la pietra angolare del sistema politico britannico, garantendole una solidità che neppure alcuni momenti di crisi durante il secolo scorso sono riusciti a scalfire.

La regina Vittoria
Richard Newbury, a cura di Erica Scroppo
Claudiana, Torino, pagg. 115, euro 9,50.

22 novembre 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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