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Emmanuelle Riva: Hiroshima mon amour, l'irrappresentabile cinquant'anni dopo

di Paolo Bignamini

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16 novembre 2009
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PARIGI - La censura nel cinema del XXI secolo - se escludiamo la pur drammatica cronaca della censura nei regimi totalitari, e quella, odiosa, di tipo economico, che orienta e rende impossibili o difficoltose certe dinamiche produttive – lambisce una riflessione estetica che porta a chiedersi che cosa è lecito che il cinema rappresenti, e che cosa no. Una liceità che può essere declinata moralmente, ma anche solo in chiave di opportunità, o di misteriosa inopportunità per certe tematiche, certe immagini.
Emblematico è, a tal proposito, il caso di una delle più cruciali esperienze cinematografiche del Novecento, il film capolavoro di Alain Resnais Hiroshima mon amour, presentato al Festival di Cannes nel 1959.

Cinquant'anni dopo, cosa resta di quell'opera capitale che, provando a rappresentare l'irrappresentabile, ha segnato l'estetica del XX secolo?
Emmanuelle Riva, la straordinaria protagonista della pellicola, ancora oggi segnata da quell'esperienza, ricorda come "in quell'edizione del Festival, Hiroshima mon amour è stato emarginato, escluso dal programma ufficiale, proposto in una sezione collaterale per non risultare sgradito agli Americani. Siamo stati messi fuori competizione per il contenuto, per quelle immagini delle conseguenze della bomba. In ogni caso, il film, come si sa, andò molto bene, ricevemmo un premio speciale, e si è parlato moltissimo della pellicola. In questo modo abbiamo superato una censura molto forte".

Si è trattato senza dubbio di uno dei numerosi esempi in cui la forza dell'arte supera logiche meschine e contingenze.
Tuttavia, parlare di censura a partire da quel film di Resnais, vuol dire spostare il fuoco dalla censura politica e sociale a una dimensione interna al cinema stesso, e all'arte in generale. Una sorta di auto-censura: ovvero, che cosa l'arte può e che cosa non può mostrare.
Secondo Marguerite Duras, che ha scritto la sceneggiatura della pellicola, non si può dare una testimonianza dell'immenso orrore che caratterizza la bomba di Hiroshima. Per evidenziare questa eccedenza tra linguaggio e contenuto, significante e significato, Duras scrive una battuta che il protagonista maschile, Lui, ripete, all'inizio del film, a quello femminile: "Tu non hai visto niente a Hiroshima".

"Ha ragione a dire quelle parole – spiega ancora Riva -: «tu non hai visto niente», perché, ingenuamente, Elle dice: «io ho visto tutto». E non è così: perché nessuno può dire di avere visto tutto a Hiroshima, non essendoci stato. E se ci è stato non può testimoniarlo, non essendovi sopravvissuto. Ed Elle, ingenuamente, chiede, proprio a Lui, se fosse stato presente a Hiroshima. Ecco, in questo caso, l'arte si ferma, l'arte si deve fermare: di fronte alla bomba atomica, non c'è possibilità di arte".

E' una forma di censura? Di auto-censura?
"Non so – riflette Riva -, di certo è qualcosa che attiene alla vita, al dolore. Per esempio, ho lavorato, anche se per poco tempo, con un regista come Krzyesztof Kiesloswki, in Trois couleurs: Bleu. E' un film sul dolore, in cui l'arte mostra la vita, il dolore stesso. Mostra tutto. Noi siamo gettati nella vita, e così non possiamo parlare d'arte se non parliamo della vita. Ecco: l'arte può mostrare il dolore, ma dipende. Non tutto è arte, molto è cronaca. E allora mi chiedo a mia volta: qual è il confine tra certe foto di cronaca, talmente belle e forti, da rasentare l'arte, e l'arte stessa? Io credo che l'arte debba mantenere una certa elevatezza di intenti. Oggi mi chiedo se esista ancora una vera e propria censura nel mondo occidentale, in cui tutto appare così libero.
Il cinema può essere pericoloso? Sì, ma solo per alcune sensibilità particolari. Allora può esserlo anche tutta l'arte, un libro, del teatro...".

L'arte è un filtro, può mostrare pressoché tutto attraverso la sua lente. Ma come ogni oggetto delicato si può rompere, o può essere delle volte uno strumento inadatto, inopportuno.
"Bisogna capire che cosa è arte o che cosa non lo è... si può incontrare dovunque l'arte, un'arte nascosta, l'arte di vivere... Per esempio, la censura che esiste nei regimi totalitari, è una censura artistica solo in seconda battuta. Chi è vittima di restrizioni della libertà, lo è prima di tutto nella propria vita. E il cinema è una sorta di doppia vita".

(si ringrazia Chiara Palermo per la collaborazione)

16 novembre 2009
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