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Quarant'anni dopo: il massacro di My Lai

di Giorgio Fontana

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20 novembre 2009


L'anno dei corpi
Si è parlato a lungo della violenza subita dai corpi in quest'Italia contemporanea: dalla lunga tragedia di Eluana Englaro ai più recenti abusi subiti da Stefano Cucchi. In un suo articolo apparso sul "manifesto", Marco Mancassola ha chiamato il 2009 "l'anno del corpo" — e in effetti la riflessione sulla nostra dimensione fisica si è fatta davvero pressante, per più di un motivo. Io credo che questo dipenda anche dalla sovrabbondanza di parole che inquina il nostro paese. Troppe parole, troppo commento, troppe chiose su qualunque cosa — contro l'immediatezza brutale di un'immagine.

My Lai
Pesano ancora di più come un monito, dunque, le fotografie della strage compiuta a My Lai, durante la guerra del Vietnam. Il 16 marzo 1968 la Compagnia Charlie uccise circa 350 civili incapaci di difendersi, in particolare donne e bambini. Guidava il reparto un tenente di ventiquattro anni, William L. Calley, ora condannato all'ergastolo.
La sua filosofia era quella di azioni "seek and destroy": fu lui a spingere il plotone all'aggressione, uccidendo di persona decine di individui, spingendo alla fucilazione di massa, che presto si trasformò in una sorta di delirio.
Un suo soldato la commentò così: «Avevo una sensazione di potenza. Di distruzione... Nel Vietnam ti rendevi conto che potevi violentare una donna e nessuno poteva dirti niente.» Il massacro fu arrestato dall'arrivo di un elicottero, ma furono scattate delle foto.
Le immagini rimasero inedite per un anno, e pubblicate solo il 20 novembre 1969 dal "Plain Dealer" di Cleveland.
Esattamente quarant'anni fa.

Fotografie e ossessione
Queste immagini sono ancora visibili ovunque su internet. Mi sembra giusto, nel momento attuale, riflettere su cosa significa rivederle — al di là delle banali coincidenze e degli anniversari macabri.
Il Vietnam non è brutta mitologia o storia recente. Il Vietnam — che a noi è arrivato soprattutto come visione cinematografica — fu un orrore senza pari. Il gesto di Calley non fu probabilmente un episodio isolato, e l'idea di uno spazio dove ogni cosa era bene o male permessa, dove anche l'etica di guerra poteva essere sospesa, fa ancora spavento.
Si parla molto di legittimità o meno di mostrare le foto dei corpi mutilati. Si discute dell'abitudine alla sofferenza visiva, si cita Susan Sontag. Il punto è che le foto, come dice appunto Sontag, ci ossessionano: certo, noi non capiamo e siamo condannati all'estraneità di quanto vediamo. Ma l'uso etico di una fotografia è più che legittimo.
Non guardiamo le foto di My Lai perché vogliamo stupirci con effetti speciali, o commuoverci di fronte al corpo di un bambino ucciso, o ricordare il quarantennale di uno scoop. Guardiamo queste foto — è un vocativo — perché ci mostrino qualcosa. Perché creino quella "istruzione collettiva" di cui ancora parlava Sontag, e lungo un asse molto semplice: la resistenza. Questi corpi resistono. Nella loro immagine, rimangono.
Di violenza in violenza, trasmettiamo un virus che ci corrode e che non si perde con gli anni, nonostante i fatti stessi tendano a seppellirlo. Di violenza in violenza i corpi perdono sempre più senso, l'aggressione diventa un fatto banale o peggio ancora meramente narrativo. Queste immagini, se ben comprese, se ben guardate, aiutano a riaccendere il senso.

Poche parole
Così, forse, quello che bisognerebbe offrire davanti all'idea di un uomo che guida un plotone e massacra degli innocenti, nella guerriglia più sanguinosa e inutile degli ultimi decenni, non è altro che spendere poche parole e riflettere invece molto più.
L'uomo è abituato a pensare per decenni e cifre tonde. Per questo, anche per questo, ecco il ricordo di My Lai — fra tante stragi, una. Eppure le parole a volte dovrebbero avere la decenza di fermarsi.

20 novembre 2009
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