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Plaudì la rivoluzione cognitiva

di Scott Atran

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7 novembre 2009


Nel 1974, studiavo antropologia all'università Columbia di New York e intendevo discutere di universali con persone delle cui idee volevo sapere più di quello che pensavo di trovare nei loro scritti. All'epoca, lavoravo con Margaret Mead, ero uno dei suoi assistenti al Museo di storia naturale, e le ho chiesto come fare.

«Parla con questi e senti se accettano d'incontrarsi», mi disse. Così sono andato a trovare Noam Chomsky a Cambridge, Massachusetts, Jean Piaget a Ginevra, Jacques Monod a Parigi, e hanno accettato. Non pensavo di riuscirci con Lévi-Strauss. Sembrava così distaccato. Margaret s'è passata la lingua sulle labbra e si è messa a ridere. «All'apparenza è distaccato e fragile, ma è più giocoso di come sembra e come minimo vivrà trent'anni più di me. Tu digli solo che ti mando io».

Di corsa, sono andato dalla Bastiglia al Collège de France in rue des Écoles, su per le scale e ho bussato alla sua porta. L'ha aperta, ha visto che grondavo sudore e con una certa freddezza ha chiesto «Monsieur, qu'est-ce que je peux faire pour vous?» Ho risposto che ero uno studente di antropologia venuto dagli Stati Uniti e che avevo un bel po' di domande da fargli. Cortese ma distante, ha detto: «Ne faccia due».

Per prima cosa gli ho chiesto perché credeva che gli operatori binari fossero una delle strutture fondamentali della mente umana. Ha alzato le spalle, e sospirato. «Quando ho cominciato, non esisteva ancora una scienza della mente. Le mie guide erano Saussure, Marx, Mauss e la musica. Da allora le cose sono cambiate, adesso la psicologia ha qualcosa da dire».

Allora gli ho chiesto perché era diventato un antropologo. «Volevo diventare un musicista, ma essendo privo di talento, ho studiato filosofia, volevo scoprire quanto i pensieri di un essere umano differivano da quelli un altro, e se quella differenza fosse davvero la stessa. È saltata fuori l'occasione di provarci in Brasile, e ci sto provando tuttora».

Si tamponò il naso con un fazzoletto, s'alzò dalla poltrona con quelle sue movenze da gru coronata, mi ringraziò di essere venuto e stava per riaccompagnarmi fino la porta, quando mi son girato e gli ho detto «Margaret Mead te dit bonjour».

Il cipiglio si trasformò in una gioia fanciullesca. «Perché non viene a cena a casa mia, adesso?» chiese con una leggerezza che apparteneva a un'altra persona, a un altro tempo. Ho declinato l'invito con una scusa idiota: dopo quella corsa puzzavo. Forse avrebbe accettato di partecipare alla discussione con Chomsky, Piaget e gli altri di cui m'ero dimenticato di informarlo fino a quel momento? «Sì, basta che mi dica quando».

La discussione si svolse durante alcuni giorni fuori Parigi, nell'abbazia di Royaumont. Lévi-Strauss stava seduto zitto e paziente, mentre gli altri dicevano la loro, pontificavano, supplicavano o urlavano le proprie obiezioni. Scarabocchiava e disegnava gatti e animali fantastici. I disegni che si lasciava dietro erano l'oggetto di una contesa accanita tra alcuni dei partecipanti, me compreso. Prima dell'ultimo pranzo che avremmo condiviso, Noam Chomsky – che aveva dominato quell'incontro di biologi con il premio Nobel, matematici di fama mondiale, filosofi, psicologi e antropologi come non ho mai visto fare a nessun altro né prima né dopo – si avvicinò Lévi-Strauss quasi timidamente. «Forse si ricorda di me? A Harvard seguivo il corso che lei teneva insieme Roman Jakobson». Lévi-Strauss lo guardò e rispose: «Mi dispiace, no». Furono le sole parole che pronunciò nella sala conferenze.

L'anno dopo, in un'intervista gli chiesero quali erano gli sviluppi intellettuali recenti che considerava importanti. Rispose che l'incontro di Royaumont era stato l'evento intellettuale più significativo che gli fosse capitato nella seconda metà del Novecento. Lasciò anche capire che il suo tempo era finito: «Mi immagino nel Nuovo Mondo come Colombo per la prima volta, una sinfonia di suoni, colori, odori, di desideri e di speranze. E poi mi immagino sulla Luna con gli astronauti, vedo soltanto grigiore, polvere e nuda roccia, e provo nostalgia di un mondo irraggiungibile».
(Traduzione di Sylvie Coyaud)

7 novembre 2009
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