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Tre capolavori nella "Serata Béjart" alla Scala di Milano

di Giuseppe Distefano

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24 dicembre 2009
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Ci sono balletti che, nati moderni, il tempo ha trasformato in classici. Fra questi il "Sacre du printemps" di Maurice Béjart. Titolo non consunto, non logorabile, tradotto nella trasgressiva e musicalissima versione bejartiana è una creazione di danza classica astratta, sobria nel vocabolario ma potente. Fu dopo il suo trionfo, nel 1959, che il coreografo marsigliese si insediò a Bruxelles. Qui diede vita alla leggendaria compagnia del Ballet du XXème Siècle, entrata nel mito come i danzatori che ne fecero parte. La ghiotta occasione di rivedere questo capolavoro, insieme a un altro caposaldo della poetica del maestro, "L'uccello di fuoco", e allo struggente duetto intimista "Chant du compagnon errant", ci è data dal Teatro alla Scala che ha aperto la stagione con questa magnifica "Serata Béjart", dedicata al coreografo scomparso.

Staccandosi del tutto dal clima fiabesco russo, nell' "Oiseau de feu" Béjart utilizzò la suite del balletto della smagliante partitura originale e ne fece, nel 1970, un simbolo dei valori di libertà del mondo giovanile. Prendendo a modello la Fenice, l'uccello immortale che rinasce dalle sue ceneri, immaginò una vicenda di lotta di liberazione identificando il poeta come il rivoluzionario. Il balletto, col suo messaggio dell'eroe che rinasce alla morte per indicare la via alla libertà, acquista la consapevolezza di una sfida senza tempo. Le divise grigie dei partigiani che lottano, l'eroe che cade, e tutti che si rialzano, che si stringono l'uno all'altro nel rosso acceso dei costumi e dell'immenso sole nell'apoteosi finale con mille altre fenici, hanno un potere evocativo che non necessita più, come all'epoca, di sottolineature politiche. Ma la forza di coinvolgimento che possiede questa coreografia è risultata un po' smunta nel corpo di ballo scaligero e negli interpreti principali. Fortunatamente l'impennata avviene con gli altri due titoli.

Creato nel 1971 per Rudolf Nureyev e Paolo Bortoluzzi e danzato ancora dal primo in coppia con Patrick Dupond nel 1989, «Le chant du compagnon errant» venne affidato successivamente a Laurent Hilaire e Manuel Legris dell'Opèra de Paris, gli unici autorizzati ad eseguirlo dopo che Bejart lo ritirò nel 1993. Struggente passo a due, sul Lieder di Mahler, nel quale un uomo in fin di vita vede il proprio destino venirlo a prendere per l'ultimo viaggio, "Chant" è un gioiello coreografico intriso di lirismo che si fa canto senza parole del destino, dell'amore e della morte, ma anche del compagno e del confidente. È l'uomo con davanti l'altro da sé, angelo e coscienza, anima e contrappunto. Il balletto richiede una tale sintonia e perfezione sul piano tecnico e interpretativo che necessita di profonda espressività e di maturo rigore stilistico. E allora ecco una nuova coppia artistica nata per necessità. Al posto di Roberto Bolle, infortunato, è subentrato infatti il ventitreenne e promettente Gabriele Corrado, alter ego di Massimo Murru. Ed è Murru a tenerci con gli occhi puntati tutti su di lui. Densa di pathos, la sua interpretazione virile e sensibile ferisce l'anima, la tocca nel profondo, scuotendola. I suoi movimenti vibrano di luce interiore. La stessa che rimane ad illuminare la scena anche quando infine viene trascinato via, a fatica, dal suo destino, mentre saluta la vita o l'irreale pubblico. Un condensato di bravura che suggella lo straordinario talento dell'étoile scaligera.

Con la rivoluzionaria creazione di "Sacre" che si discostava dal libretto originale della partitura di Stravinskij coi suoi riti pagani, Béjart lanciò un messaggio di fiducia, di vita piuttosto che di morte. Un inno all'amore fra uomo e donna che lo celebrano in una comunità invasata. Due gli schieramenti, maschili e femminili, accostati ai possenti blocchi sonori. Gli uomini con la loro energia animalesca e la primigenia sessualità, dopo una lotta selvaggia si dirigono a balzi verso un luogo di luce. Qui li attendono le donne, pudichi strumenti di un erotismo primordiale. La coreografia evidenzia la prepotenza della danza maschile contrapposta alla fragilità calligrafica di quella femminile. Senza più il sacrificio umano dell'Eletta, rimane, pur in altra forma, l'idea cosmica riscontrabile nella reiterazione dei cerchi magici e il senso panico della vita dopo il letargo. Un eros collettivo che trova il culmine nell'elevazione della brava coppia costituita da Emanuela Montanari e Eris Nezha. Finale travolgente che strappa intensi, lunghissimi applausi.

"Serata Béjart", coreografie di Maurice Béjart, allestimento del Teatro alla Scala. Direttore Daniel Harding. Milano, Teatro alla Scala, fino al 5 gennaio.
www.teatroallascala.org

24 dicembre 2009
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