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Caravaggio senza veli

di Marco Bona Castellotti

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1 gennaio 2010

Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, pittore provocatorio sino a quando i fatti luttuosi della vita lo fecero precipitare nel più cupo sconforto, aveva dimostrato un'inclinazione a infondere nelle sue opere una buona dose d'ironia. La vediamo a partire dall'Autoritratto in veste di Bacco della Galleria Borghese di Roma, quadro efficacemente intitolato da Roberto Longhi «Bacchino Malato» per l'aria da convalescente, il color pallido dell'epidermide, un che di sfrontato e di spossato, affiorante nell'espressione di quel personaggio tutt'altro che rassicurante.

L'ironia viene profusa dal Caravaggio anche nella prima versione del San Matteo con l'angelo (dapprima rifiutato poi acquistato dal marchese Giustiniani indi distrutto durante la Seconda guerra mondiale), dove la posa dell'angelo che insegna a scrivere all'evangelista Matteo «quelle letterone ebraiche» è ripresa da una incisione cinquecentesca di Cherubino Alberti, tratta dall'affresco di Raffaello nella Farnesina che raffigura Giove in atteggiamento più che affettuoso con Cupido. L'ironia si insinua in uno dei più antichi quadri di soggetto sacro del Caravaggio: il Riposo durante la fuga in Egitto della collezione Doria Pamphili. Qui l'angelo musico che allieta la Sacra Famiglia, suonando la viola durante l'affannoso viaggio, richiama fedelmente la personificazione del Vizio dell'Ercole al bivio di Annibale Carracci oggi a Napoli: un angelo dalle ali scure e discinto, con addosso giusto un candido drappeggio svolazzante che non lo avvolge completamente, lasciando trasparire le forme. Più tardi l'ironia si spingerà al punto da indurre il Merisi ad adottare come modello di un dipinto privato, commissionatogli dal marchese Giustiniani, l'Amore vincitore ora a Berlino, il San Bartolomeo martire scuoiato vivo con la propria pelle in mano di Michelangelo che, fra i personaggi che popolano il Giudizio Universale della Sistina, è uno dei più tragici.

Il continuo passare dal sacro al profano e viceversa doveva rappresentare, per il Caravaggio, un connotato fondamentale del suo dileggiare i più illustri pittori che lo avevano preceduto, in particolare Raffaello e Michelangelo. L'irrisione in un certo senso dà conferma della natura ribelle del Merisi, ma nello stesso tempo ne rivela l'ambizione narcisistica di mettersi sul loro stesso piano. Tuttavia era più che legittimo che anche il Merisi ambisse sfilare sul palcoscenico, dopo avere lavorato nel segreto dei palazzi fino al 1599, anno in cui, grazie ai buoni auspici del cardinale Francesco Maria Del Monte, per la prima volta era riuscito a dipingere «in pubblico» i quadri della cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi.

Quando Caravaggio fosse entrato in contatto con il potente porporato, amante delle arti, lungimirante, molto libero nelle scelte e nelle preferenze, ma nel contempo in linea con l'ala più intransigente della curia romana, non si sa, forse nel 1595 e comunque assai presto. Stretto seguace di Carlo Borromeo e di Filippo Neri e intrinseco del cardinale Federico, nel vivo della controriforma il cardinale Del Monte fu uno dei più tempestivi sostenitori dello scomodo realismo evidente nella trattazione dei temi sacri realizzati dal pittore lombardo, cui dimostrò incondizionata stima, dandogli alloggio in casa sua.

Fra i molteplici interessi del cardinale Del Monte, oltre alle arti e alla musica, spiccava anche quello per la sperimentazione alchemica, che il presule praticava probabilmente in modo empirico e con risultati che non appartengono alla categoria della scienza. È però certo che il Del Monte, in contatto con Galileo, possedeva una discreta strumentazione alchemica, una batteria fatta di alambicchi, mortai e fornelli, un po' rudimentale e da usarsi sostanzialmente per svago. Ogni strumento era conservato nella villa di Porta Pinciana, oggi Ludovisi, dove il Del Monte aveva allestito un gabinetto alchemico, «una distillaria» come la chiama il Bellori, alla quale doveva tenere parecchio, se nel 1597 circa, affidò al Caravaggio – che aveva ormai dato prova del proprio talento – il compito di dipingerne il soffitto. La villa di Porta Pinciana era stata acquistata l'anno precedente insieme a una vigna da Francesco Neri. Il piccolo gabinetto alchemico, della dimensione di uno studiolo, si trovava (e si trova) in un ambiente di passaggio al piano nobile, ma curiosamente pochi storici dell'arte si erano accorti della singolare decorazione del soffitto, dimenticata forse per l'offuscamento e il cattivo stato di conservazione, nonostante la citazione nelle fonti antiche. Solo dopo il restauro, ultimato nel 1990, le figure che campeggiano sopra la testa di chi vi passa sotto hanno riacquistato la loro piena identità. Sono tre divinità mitologiche: Giove, Nettuno e Plutone, intorno a una sfera celeste che simboleggia il cosmo, entro la quale si vedono quattro segni zodiacali e due globi luminosi. I tre sono rappresentati in pose prospetticamente ardite, come solo un grande pittore riesce a fare: Plutone poggia su nuvole e si tiene appresso un Cerbero tricipite, che però ha un'aria domestica, un cane non di buona razza, ma ugualmente vigile e attento. Nettuno è a cavalcioni di un cavallo marino dalle zampe palmate. Giove cavalca l'aquila, fasciato da una veste di un bianco spumeggiante che richiama quella dell'angelo musico del Riposo durante la fuga in Egitto; invece Nettuno e Plutone sono nudi.

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1 gennaio 2010
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