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Oltre le maschere. In ricordo di Bobby Fischerdi Giorgio Fontana |
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14 gennaio 2010
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Visse nelle Filippine e in Giappone. Delirò su complotti ebraici internazionali, definendosi vittima dei giudei e negando l'Olocausto. Definì l'attacco alle Torri Gemelle "una fantastica notizia", sperando che gli Stati Uniti venissero distrutti una volta per tutte. Il bambino prodigio aveva chiuso il cerchio. Nella foto: un ultracinquantenne bolso e trascurato, con la barba lunga e il berretto da baseball, lo sguardo disintegrato. Eccolo qui, l'ex gioiello degli Stati Uniti, Colui che Sconfisse i Russi. Emarginato e solo, l'ultimo dei figli d'America. Nel 2006 approdò in Islanda dove morì, un anno dopo, un anno fa, il 17 gennaio 2007. Nel luogo che lo vide campione, come in una parabola ironicamente prevedibile. Olivier Tridon, esperto di scacchi francese, non ha mancato di sottolineare che Fischer è morto a sessantaquattro anni, come le sessantaquattro caselle di una scacchiera. Nemmeno quest'ultimo simbolo gli è stato risparmiato.
Quello che rimane La storia dei campioni di scacchi è la storia dei loro tormenti: è il compendio dell'arte umana al parossismo. Lo sport più violento del mondo, come lo definì Kasparov, è statico solo all'apparenza: dietro i pezzi di legno si muovono passioni irrisolte, incomunicabili, che non trovano sbocco fisico e dunque sono condannate alla sospensione.
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