Il 27 gennaio di quest'anno, il Giorno della Memoria non somiglierà a nessuno dei precedenti per almeno una ragione: perché nel frattempo è scomparso Marek Edelman. Il più rappresentativo degli ebrei sopravvissuti all'insurrezione del ghetto di Varsavia aveva novant'anni al momento della morte, nell'ottobre scorso. Era dunque molto vecchio, ma ancora pochi mesi prima, il 19 aprile 2009, aveva commemorato alla sua maniera il 66º anniversario dell'insurrezione: separatamente da ogni celebrazione ufficiale, percorrendo a piedi (da ultimo, in carrozzella) le strade dei quartieri varsoviti divenuti ghetto sotto l'occupazione tedesca, raccogliendosi a meditare davanti a certe lapidi. Fedele alla memoria dei compagni caduti, ma fedele altrettanto agli ideali socialisti del Bund, il partito operaio ebraico della sua giovinezza: i medesimi ideali per cui aveva da sempre rigettato il sionismo e per cui aveva rinunciato, dopo la guerra, a emigrare in Israele.
La morte di Marek Edelman segna un momento simbolico di svolta nel rapporto fra la storia del ghetto di Varsavia e la sua memoria. Conclude "l'era del testimone", la stagione di una memoria intesa come esperienza vissuta. Consegna definitamente alla storia i due anni e mezzo intercorsi fra il novembre 1940 e il maggio 1943, durante i quali 450mila ebrei di Polonia vennero rinchiusi in tre chilometri quadrati al centro della capitale, uscendone vivi soltanto per essere gasati a Treblinka. Quest'anno, il Giorno della Memoria deve misurarsi con la scomparsa di colui che della memoria polacca della Shoah si sentiva, a buon diritto, Il guardiano (così il titolo di una riflessione autobiografica di Edelman pubblicata da Sellerio nel 1998).
Ma quest'anno, come per un risarcimento della perdita, i lettori occidentali dispongono di un nuovo, meraviglioso strumento per avvicinarsi alla storia del ghetto di Varsavia. È l'edizione americana di un librone di novecento pagine, uscito in Polonia nel 2001 per opera di due specialisti locali della Shoah, Barbara Engelking e Jacek Leociak. Se in inglese il titolo suona asciutto, puramente descrittivo, il sottotitolo riesce tanto suggestivo quanto esatto: The Warsaw Ghetto. A Guide to the Perished City. Proprio di questo si tratta, di una guida alla città ebraica dapprima riempita e sigillata, poi svuotata e distrutta dagli uomini del Terzo Reich.
Grazie a una varietà di mappe, si ritrovano nel volume i confini geografici del ghetto, la topografia delle strade, il percorso dei mezzi di trasporto. Ma soprattutto si ritrova la dislocazione precisa, infallibile – sembra di stare su Google Maps – di ogni singolo luogo, più o meno pulsante di vita o di morte. Case private, uffici pubblici, sinagoghe, commissariati di polizia, caserme dei pompieri, parcheggi delle ambulanze, ospedali, farmacie, laboratori, scuole dichiarate o segrete, cimiteri, giardinetti, mense popolari, orfanotrofi, bagni comuni e bagni rituali, ricoveri per profughi, uffici postali, buche delle lettere, saloni di coiffure, lavanderie, sartorie, calzolerie, gioiellerie, negozi di alimentari, pompe funebri, imprese artigianali, biblioteche legali o illegali, librerie, stamperie clandestine, teatri, ristoranti ordinari o kosher, scuole rabbiniche, caffè, cabaret, sedi di riunione delle forze di resistenza, depositi di armi, bunkers... per il lettore di questa guida, la geografia del ghetto non ha più misteri.
Ritrovare la storia nel segno della geografia è tanto più importante, in quanto la dimensione spaziale fu costitutiva dell'esperienza del ghetto di Varsavia. Onnipresenti, i muri di recinzione conferivano all'enclave ebraica l'aspetto inatteso di una città orientale. E fino all'estate 1942, pareva che ogni cosa lì dentro succedesse all'aperto, davanti a tutti. Il ghetto brulicava di gente in perpetuo andirivieni, risuonava delle voci dei passanti come delle urla dei gendarmi, vibrava dei traffici nei mercati dell'usato, sussultava a ogni movimento dei militari tedeschi, celava a malapena l'indaffararsi dei contrabbandieri, ed esibiva ininterrottamente – suo malgrado – lo spettacolo della morte: cadaveri nudi sul marciapiede, vinti dal tifo, dalla fame, dagli stenti. Solo nell'autunno del '42, dopo la prima ondata di deportazioni verso Treblinka, il ghetto avrebbe assunto l'aspetto di una città non più strapiena ma deserta, non più vociante ma silenziosa. E solo nella primavera del '43, dopo il soffocamento della disperata insurrezione, i tedeschi ne avrebbero fatto un paesaggio vuoto, immobile, lunare: il paesaggio che ci è rimasto negli occhi attraverso il film di un superstite del ghetto di Cracovia, Il pianista di Roman Polanski.
Quasi tutte le fotografie del ghetto di Varsavia pervenute sino a noi furono scattate dagli occupanti tedeschi: compresa quella – dolorosamente celebre – del bambino che alza le mani mentre viene trascinato con altri fuori da un rifugio. In compenso, furono gli ebrei polacchi a raccogliere la maggioranza dei documenti non fotografici che hanno consentito a Engelking e Leociak di ricostruire la vita e la morte del ghetto nei più minuti dettagli. Riunendosi intorno alla figura di uno storico di professione, Emanuel Ringelblum, un gruppo di intellettuali fondò allora un'istituzione unica nella storia dell'Europa occupata: l'archivio clandestino del ghetto, dove si radunavano materiali sulla storia del presente destinati alla memoria del futuro.
Diari, poesie, lettere, volantini, carte d'identità, ricette mediche, biglietti del tram, bracciali con la stella di David, menù di ristoranti, quaderni di scuola, disegni di bambini, dépliants pubblicitari, locandine di spettacoli, verbali di riunioni politiche, giornali clandestini, contabilità commerciale, statistiche demografiche: Ringelblum e i suoi compagni ebbero la lucidità di riconoscere in questo il lascito più prezioso che fosse dato ai morituri di trasmettere alla posterità. Dopo l'avvio delle deportazioni di massa verso Treblinka, infilarono migliaia di documenti in dodici contenitori metallici e li seppellirono di nascosto sotto le cantine di due edifici del ghetto, dove vennero ritrovati fra il 1946 e il 1950.
Da duemila anni in qua, i muri hanno rivestito una funzione decisiva nella storia del popolo ebraico: dall'inizio della Diaspora al ritorno nella Terra Promessa, dalla rovinosa distruzione del tempio di Gerusalemme alle misure di sicurezza dell'Israele di oggi, insomma dal Muro del Pianto al muro di Sharon, il destino delle comunità israelitiche è stato spesso quello di una separazione coatta dal mondo circostante. Ma nella tragedia di tale destino, il popolo ebraico ha trovato la forza per non vivere i muri soltanto come un limite: per viverli anche come una risorsa. Facendo degli spazi chiusi mondi aperti, e dei giorni contati giorni regalati. È stato così nella Varsavia stessa del 1940-43, dove gli ebrei reclusi nel ghetto e destinati allo sterminio riuscirono a cimentarsi con le arti della vita.
Uomini più o meno atletici si guadagnavano il pane pedalando, autisti di un mezzo di trasporto rudimentale eppure diffuso: il risciò. Donne più o meno fascinose percorrevano le strade da coquettes, in precario equilibrio su tacchi sorprendentemente alti. Musicisti di rango o di dozzina suonavano nei caffè, agli angoli delle vie, nei cortili delle case. La programmazione teatrale era intensa, in yiddish come in polacco, e capitava che gli spettacoli durassero tutta la notte per aggirare le regole del coprifuoco. Se costretti in casa, molti cittadini-prigionieri si tenevano occupati leggendo, giocando a scacchi, sfidandosi a carte (il bridge la faceva da padrone). Quanto al proverbiale humour ebraico, si tradusse addirittura nella circolazione, in forma manoscritta, di una Guida turistica del ghetto...
Agli ebrei di Varsavia capitava pure di innamorarsi: anche questo, in fondo, un modo per opporre resistenza morale all'orrore della Soluzione finale. Alla vigilia dell'insurrezione, rimanevano nel ghetto soprattutto giovani "single" che avevano appena perduto i genitori, i nonni, i fratelli più piccoli. Ragazzi e ragazze cui il destino aveva sottratto ogni cosa, salvo la voglia di resistere fino all'ultimo, e salvo il bisogno di amare ed essere amati. Studente di medicina, Marek Edelman era uno fra loro. Non avrebbe mai dimenticato certi idilli sbocciati nella Varsavia della morte. Li ha raccontati in conversazioni della vecchiaia, recentemente raccolte da Sellerio in un libro che va letto come il suo testamento, e che va assaporato fin dal titolo: C'era l'amore nel ghetto.

Barbara Engelking e Jacek Leociak, «The Warsaw ghetto. A guide to the perished city», Yale University Press, pagg. 902, $ 75,00.