I momenti di transizione tecnologica nei media hanno sempre creato sconquasso tra chi li realizza e chi ne fruisce. Pensiamo a Gutenberg: l'artigiano-inventore di Magonza decise di cimentarsi con la Bibbia in latino.
Con il tempo, i caratteri mobili vennero utilizzati per scopi meno "nobili", fino ad arrivare ai pamphlet e ai volantini pubblicitari.
Lo stesso è accaduto con la televisione - chi ha più di sessant'anni non smette di ricordare la qualità dei programmi degli anni 50 e 60 - e ora sta accadendo con internet. La Rete è una rivoluzione ancora più repentina e, forse, innovativa. Per la prima volta, quasi tutti possono permettersi di dire qualcosa su un media e di essere letti (visti/ascoltati) praticamente da tutto il mondo.
Che questo rappresenti una rivoluzione, è evidente: scardina alla radice il rapporto produttore-consumatore che da sempre è esistito nel mondo dell'informazione. Ma ha anche altri effetti: aumenta in modo esponenziale il quantitativo di informazioni a cui teoricamente tutti noi possiamo accedere, e pone quindi in una posizione dominante quegli attrezzi che servono a preselezionare, al posto del nostro cervello, le informazioni. Due esempi su tutti, appunto: Google e Wikipedia. Che, in quanto attrezzi, possono aiutare nel lavoro, ma sicuramente non lo eliminano.
Il problema è che anche stavolta come in passato, se lo strumento è pronto, molto meno lo è la mentalità di chi lo utilizza (gli utenti "medi" della Rete) e, quel che è più grave, di chi lavora nell'informazione. Soprattutto se è cresciuto professionalmente su altri media.
Ma non sono indispensabili correttivi. Che lo si voglia o no, siamo destinati a evolverci. Per evitare di restare indietro (specie in Italia), serve senz'altro un salto di mentalità: sia da parte nostra, che lavoriamo nell'informazione, sia da parte dei fruitori. Per esperienza, questi ultimi sono già più avanti, non rallentati da pigrizie di casta e da gerarchie cristallizzate che spesso frenano piuttosto che stimolare.
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