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Alberto Arbasino, il pasticheur lombardo

di Salvatore Silvano Nigro

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6 febbraio 2010
Lo scrittore Alberto Arbasino (Olycom)
INTERVISTA / La letteratura? È una serva

Tra «chicchere e chiacchiere», Arbasino, nello Specchio delle mie brame, imbandisce un menu di ghiotti aneddoti. Il servizio prevede leggerezza, sbadata in apparenza. E invece sempre più avanza, all'ombra della Regina Cattiva di Biancaneve che in copertina incrocia le braccia, un gusto provocatorio di efferate gauloiseries. Si comincia con il «principe grullo che in occasione di un duello fa voto di pellegrinaggio a piedi in Terrasanta, poi calcola con esattezza la distanza fra Palermo e Gerusalemme e la percorre giorno per giorno nel parco facendo del salutare footing per vent'anni col servo dietro e un ombrellone di bibite fresche». Si arriva allo sberleffo del barone von Gloeden che, durante una fantomatica campagna fotografica, contrappone le pose classiche e travestite del suo verismo pagano a quelle trezzote di Verga: «Ella tiene a bada il vecchietto con le sarde e la pipa davanti alla barca naturalistica, mentre io mi apparto con gli ellenistici e i dorici dietro gli ibischi e le istmiche». Verga non ha la sfrontatezza del barone. Ma già conosce di che lacrime grondi, e di quali gramaglie si vesta, la (pirandelliana) jettatura. Si impettisce. E forse mal augurando, finge di mettere in guardia il baron tedesco: «Attento ai fichidindia», dice sornione; e da bravo novelliere rusticano.

Sono chiacchiere palermitane, questi microracconti che Arbasino ricicla dentro il Kitsch del suo romanzo, che è anche un trattatello sul Kitsch: per quella invenzione narrativa che, nelle opere di Arbasino, si combina sempre con uno spiccato talento saggistico e con la vocazione a infarcire di racconti (grandi o piccoli che siano) ogni singolo romanzo. L'"ambiente" c'è, in questi aneddoti. Lo assicura una glossa metanarrativa. Ma quel gran pasticheur che è Arbasino, non pensa certo al realismo becero. Già da tempo ha finito di scontrarsi con «un certo realismo» che, almeno per quel suo vezzo di presentarsi in giro con un "neo" in fronte, si legge nell'Anonimo lombardo, «non si è proprio mai riusciti a prendere sul serio». Come già aveva fatto Carlo Dossi, il lombardo Arbasino vuole che nella letteratura passi la conversazione di una società, la vita: trasformando il romanzo in «una commedia mondana travestita da dialogo di idee»; e reinventando il «sound del linguaggio parlato» sulla pagina del romanzo-conversazione, che sa discutere di se stesso in quanto scelta romanzesca e sa mescolare e agglutinare i vari generi letterari, e musicali, fino al recupero del cabaret pop nel Super-Eliogabalo. Dietro le scelte di Arbasino premono le "eversioni" stilcritiche di Dossi («Vedere la realtà per elenchi» e per magazzini di pensieri) e di Gadda, che della «madornale figura retorica dell'Enumerazione» (è spiegato in Certi romanzi) aveva fatto un modello di lettura pluriprospettica della realtà.

Arbasino è un conversatore "scritto", diceva Manganelli. Sulla pagina tratta le parole come materia sonora. La sua voce "scritta" gioca dottamente con le citazioni. Si fa maliziosa, ha sottigliezza intellettuale, va in falsetto, replica e manomette le fonti (un intero dramma di Calderón de la Barca, nel Principe costante), prevarica con le rime, opera trasferimenti verbali dalla pittura. Nei racconti che compongono Le piccole vacanze, un addio al «giallo paese» e alla «Casa Lunga» strizza l'occhio all'addio dei Promessi Sposi; e la «signora Scorticacazzi» fa ogni giorno «cose da pazzi». Dentro il romanzo Fratelli d'Italia, il narratore incunea una pala d'altare, la Deposizione di Santa Felicita del Pontormo: «un Pontormo di jeans di velluto a zampa d'elefante per mettere in valore tutto quello che abbiamo davanti e dietro, color ciliegia, pesca, albicocca, diverse prugne e mele acerbe e mature, e altri frutti che non sempre si frequentano, e quindi accrescono le chances del gusto picaresco anche al tatto...». E qui l'ecfrasi gaglioffa trasferisce i colori di un intero frutteto, segretamente maturato in un saggio di Giuliano Briganti dedicato alla maniera italiana.

È facile a questo punto parlare di frivolezza arbasiniana. Ma frivolo Arbasino lo è, nel senso che i moralisti classici davano al termine; e che lo stesso Arbasino adotta in un saggio su Ennio Flaiano: «Bisogna proprio travestirsi da grandi frivoli per far intendere le cose più serie»; e cioè la compenetrazione di tragedia e di farsa, in uno stile che si dà come materiale di costruzione e si pone insieme, al quadrato o al cubo, come ironia (diceva Giuliano Gramigna) «della stessa nozione di stile».
La «conversazione di idee» è, nell'opera di Arbasino, un materiale di testimonianza: un'attualità che diventa memoria e "frivola" trafittura del presente, del suo stato culturale, delle sue precarietà, delle illusioni e dei vezzi; e si aggiorna, in quanto ritratto collettivo di un'epoca che vive se stessa in costume, attraverso quella rilettura d'autore che è la riscrittura delle opere. Si pensi al romanzo Fratelli d'Italia, quattro volte restituito al pubblico, di volta in volta riletto e rivisto dall'autore, in un arco di tempo che va dal 1963 al 1993.

  CONTINUA ...»

6 febbraio 2010
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