Per chi cresceva nel secondo dopoguerra c'erano due cani imprescindibili e molto diversi. Quello dolce e tranquillo sui dischi della casa discografica Voce del padrone e quello nero e allegro dell'Eni. Impossibile dubitare chi impersonasse il passato e chi il futuro. E quell'Italia ancora segnata dalle macerie dei bombardamenti era avida di tutto quel che poteva staccarla dalla sua quiete provinciale.

Le sei zampe del cane nero dell'Eni traducevano, in un disegno a metà tra fiaba e design, quell'ansia di nuovo, quella corsa giocosa che tingeva di rosso le macchine da scrivere Valentina di Olivetti. Il mondo contadino non era ancora un ricordo, ma una realtà molto vicina, grazie al recente inurbamento. La natura era un dato di fatto e non una realtà da preservare, quindi si era attratti da tutto ciò che era nuovo, artificiale e scientifico. In una parola, la modernità. Era un sogno sorridente, che odorava lievemente di benzina. Le auto non erano ancora tante e le prime utilitarie avevano, come la Topolino, l'aspetto di grossi giocattoli.

Le autostrade sembravano attraenti e pericolose. Sulla Milano-Torino una serie di cartelli rivelava chilometro dopo chilometro la strada percorsa. In alcuni paesi si spezzava il triangolo chiesa-municipio-castello con un nuovo elemento, il Motel Agip. Erano costruzioni avveniristiche e squadrate che facevano assaporare agli italiani l'ebbrezza di un modo di vivere internazionale. Non sapevamo di condividere con Le Corbusier questa fiduciosa passione per il cemento. Inorgogliva in modo particolare l'imponente Motel di San Donato, costruito da Marco Bacigalupo alle porte di Milano, alla confluenza dell'autostrada del Sole con la Torino-Milano.
Naturalmente il Motel Agip non aveva nulla del motel americano con la sua schiera di casette, ma già il nome bastava, con la sua carica evocatoria.

Anche l'accoglienza era inconsueta. Bastava dire il proprio nome e la targa dell'auto per ottenere la chiave che apriva una porta colorata. Dentro c'era «una camera semplice ed elegante in legno di teak», dove «non è raro di trovare, davanti a una poltrona, l'apparecchio della televisione». Il pavimento era in un attualissimo linoleum, i materassi, avvertiva la guida, «confortevolissimi in crine animale». Non importa se allora si viaggiava relativamente poco, quel che contava era essere pronti al grande salto. Il self-service aveva sostituito l'oste di provincia, tra pareti di cristallo in «tutto un nitore di nichel, acciaio e alluminio». I prezzi erano modici: 650 lire per una minestra, un secondo con contorno, frutta, formaggio o dolce e un quarto di vino.

A metà tra il Motel Agip e il nastro d'asfalto che avvicinava le città c'erano le stazioni di servizio. Se il Motel Agip era la cattedrale, le stazioni di rifornimento erano le cappelle della modernità. I colori vivaci, le larghe tettoie e gli spazi aperti sembravano anticipare le abitazioni di un futuro prossimo. Inoltre magicamente si poteva mangiare, leggere il giornale e fare eventualmente aggiustare la macchina. Era nato l'Autogrill che, scriveva poeticamente Nello Saito, aveva «la grazia di una gazzella». La modernità era ormai a portata di mano, anche se il linguaggio con cui si descriveva il nuovo servizio era ancora debitore del passato: «Questi nuovi complessi, ispirati ai più moderni criteri funzionali ed estetici» offrivano la possibilità «di dedicarsi alla lettura fumando magari un sigaro, o di comprare fiori per chi vuol avere un pensiero gentile e profumato per i congiunti che lo attendono». Sì, perché allora le telefonate intercomunali erano rare e costose. Si parlava velocemente e più ancora ci si limitava a far squillare il telefono, una volta raggiunta la meta, per rassicurare "i congiunti".

Si sapeva che dietro questa pioggia di innovazioni c'era Enrico Mattei, una faccia risoluta vista ai cinegiornali intenta a tagliare nastri di inaugurazioni o a rilasciare dichiarazioni. La sua silhouette borghese, lievemente appesantita, era quella dei suoi coetanei che stavano ricostruendo l'Italia. Si assomigliavano tutti quei signori con il cappello, la cravatta e i risvolti della giacca stretti.

La modernità era una festa colorata e, grazie all'Eni, ormai anche l'Italia poteva parteciparvi. «Dopo una breve volata, scriveva Luca Goldoni, l'Autogrill ci apparve, illuminato e solenne come un transatlantico ormeggiato, con festa a bordo».

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