Che hanno in comune la «Milano Calibro 9» di Fernando Di Leo, «Shaft» che si aggira con spirito vendicativo per le strade di Harlem e l'urlo di Bruce Lee che risuona «dalla Cina con furore»? In tutti e tre i casi parliamo di «cinema di genere sviluppatosi negli anni Settanta e destinato al terzo mondo, cinematograficamente parlando». Opere «spesso molto interessanti» senza le quali «uno come Tarantino forse farebbe un altro mestiere». Marco Giusti, autore Rai e critico cinematografico tra i massimi conoscitori del cinema di genere, quando si tratta di B-movies ha sempre da proporre un punto di vista molto originale.
Giusti, c'è una formula comune che sta dietro i film della blaxploitation?
Volendo dare una definizione da manuale al fenomeno, possiamo dire che fa riferimento a una cinematografia composta da film di genere, ambientati per lo più presso la comunità dei neri d'America, nei quali le parti principali sono affidate ad attori di colore, mentre ai bianchi restano ruoli marginali, spesso di personaggi negativi. Quando parlo di film di genere, mi riferisco all'accezione più ampia del termine: ci stanno dentro western, horror, commedie e polizieschi. Quest'ultimo, però, è il genere blaxploitation per eccellenza.
Quali sono, secondo lei, i migliori film della blaxploitation?
Sicuramente «Shaft» che rivoluziona e al tempo stesso definisce i criteri del genere. Il primo della serie, diretto da Gordon Parks, era un piccolo capolavoro. Altro must è «Blacula», il capostipite degli horror blaxploitation. Incredibile come a qualcuno sia potuta venire in mente l'idea di realizzare una versione black del genere vampiresco. Ci sono poi film forse meno noti cui sono molto affezionato: «Watermelon man», per esempio, che da noi uscì come «L'uomo caffellatte». Il regista era Melvin Van Peebles, lo stesso di «Sweet Sweetback's baadassss song». Una commedia del '70 su un bianco razzista che si ritrova nero.
E il personaggio simbolo?
Senza dubbio Jim Brown, campione di football americano e attore che è stato un vero e proprio pioniere. Tutti lo ricordano per «Quella sporca dozzina» ma nel 1969 con «100 Rifles» di Tom Gries, da noi diventato «El Verdugo», fece scandalo perché era il primo nero che girava una scena di sesso con una bianca, ossia Rachel Welch. Performance «bissata» un anno dopo in «The grasshopper», da noi «La cavalletta», dove si accompagnava a Juliette Binoche. Non ha fatto solo film blaxploitation, eppure ha contribuito come pochi altri allo sviluppo del fenomeno.
Anche sul piano sociale.
La blaxploitation esplode negli anni Settanta quando, guarda caso, qui da noi i cosiddetti poliziotteschi all'italiana spadroneggiano. Un caso di convergenza evolutiva?
Qualcosa di simile. Proviamo a fare una ricostruzione storica: negli anni Sessanta siamo noi italiani a dare una scossa alle produzioni di genere con gli spaghetti western, nei Settanta i neri d'America raccolgono il testimone con la blaxploitation, mentre parallelamente ad Hong Kong si girano i primi kung fu movies. Parliamo di tre cinematografie geograficamente lontane, contraddistinte da comunanza di temi: trame molto semplici, grande apertura a possibili contaminazioni. In fin dei conti parliamo di film di genere realizzati per tre pubblici da terzo mondo, cinematograficamente parlando. Sta tutta qui la forza di queste pellicole.
Con «Shaft» la blaxploitation diventa una gallina dalle uova d'oro, tant'è che anche Hollywood se ne accorge. E comincia a investirci.
Il filone, soprattutto quando frequenta poliziesco e commedia, si rivela infatti molto redditizio. Se ne accorge anche Dino De Laurentiis che produce «Crazy Joe» nel '74 e «Mandingo» l'anno successivo. A dispetto di ciò, pochissimi film blaxploitation arrivarono qui in Italia. E non si capisce il motivo. Forse erano troppo concorrenziali con i B-movies di casa nostra? Chissà. Fatto sta che Oltreoceano hanno visto tutto Duccio Tessari, Mario Bava e Fernando Di Leo mentre noi non possiamo dire altrettanto del cinema nero.
All'inizio degli anni Ottanta, il filone si è poi esaurito. La blaxploitation aveva forse perso il suo pubblico?
Non è stato tanto quello il problema. L'estinzione della blaxploitation è riconducibile al più generale fenomeno della fine dei generi. In tutto il mondo e per un bel po' sono scomparsi i western, i polizieschi e quindi anche gli horror. Le produzioni nere non si sono sottratte a questa dinamica generale.
La loro lezione però, a quanto pare, non è andata perduta.
Affatto: «Pulp Fiction», nelle parti interpretate da Samuel L. Jackson, è un film blaxploitation. Tarantino in «Jackie Brown» ha fatto poi un omaggio esplicito al filone, creando un plot dedicato alla musa Pam Grier. Come dire: senza blaxploitation, molto cinema degli ultimi vent'anni non ci sarebbe.