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Il critico Salvatori: «Il ritiro dalle scene? Una scelta di marketing»

di Francesco Prisco

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17 marzo 2010
Dario Salvatori, profondo conoscitore di Mina

«Mina è diventata un mito perché dal 1978 è scomparsa, sottraendosi agli occhi del pubblico. Da allora si è trasformata in un brand che vale molto sul mercato discografico. Così però è troppo facile: chi è artista non dovrebbe mai perdere il gusto di rischiare». Il critico Dario Salvatori, profondo conoscitore della produzione della Tigre di Cremona, il ritiro delle scene risalente ormai a più di trent'anni fa non lo ha mai digerito. «Concerti, apparizioni pubbliche e incontri con i fan – ci tiene a precisare – potranno anche stancare un musicista ma rappresentano momenti importanti, quasi imprescindibili del suo lavoro».

Salvatori, quale ritiene che sia il tratto distintivo dell'arte di Mina?
Senza dubbio il colore, la straordinaria altezza e la capacità di fraseggio della sua voce, doti davvero rare per un cantante.

Molti sostengono che avrebbe potuto intraprendere una carriera jazz. Condivide questa analisi?
Mina è una grandissima interprete di musica leggera. Il jazz è un'altra cosa: per frequentarlo devi riuscire a imprimere una divisione ritmica caratteristica al tuo cantato, quello che si chiama swing. Billie Holiday aveva un'estensione vocale sicuramente inferiore a quella di Mina, ma possedeva la dote dello swing che alla nostra cantante manca. Ecco perché quando ha provato a cimentarsi con il repertorio jazzistico, gli esiti non sono stati proprio eccelsi.

Quale periodo preferisce della produzione di Mina?
Gli anni della Ri-Fi, quelli delle sigle televisive, delle partnership con autori che la adoravano e si divertivano a comporre per lei. Un esempio illustre tra tanti: il grande Ennio Morricone. Dagli anni Settanta in poi ritengo che si sia appiattita su una dimensione troppo «industriale» della produzione musicale, tanto nella scelta delle canzoni da interpretare quanto nei duetti.

Eppure cerca spesso autori giovani, a suo modo «rischia».
Il problema sta nel modello di lavoro: fino alla nascita dell'etichetta Pdu era abituata a lavorare fianco a fianco con gli autori e gli artisti con cui duettava. Nei dischi si sentiva per questo un feeling diverso, del tutto scomparso dalle produzioni più recenti. L'unico duetto «vero» con cui si è misurata negli ultimi anni è stato quello con Celentano. Era un suo vecchio amico, se l'è portato a casa, ha cucinato per lui e non a caso hanno tirato fuori il disco di Mina che ha venduto di più in assoluto. Questo vuol dire collaborare realmente. Non scegliere a tavolino, dal proprio beato isolamento, gli spartiti che ti arrivano per corrispondenza.

Non è tenero, insomma, nei confronti dell'auto-esilio che Mina si è imposto dal '78.
Affatto. È una scelta di marketing che non approvo. Il pubblico ama gli artisti perché rischiano, perché non hanno uno stipendio fisso a fine mese e possono passare da fortune spropositate alla completa indigenza. Nel lavoro di Mina dal '78 in poi è venuto meno questo elemento di rischio, a favore di una programmazione molto dettagliata di tutte le proprie mosse. Perché non fare più concerti? Perché non incontrare più il pubblico? Un artista non dovrebbe sottrarsi a questi aspetti così fondamentali del proprio lavoro, persino quando invecchia. Ella Fitzgerald è sempre stata il modello di Mina. Perché non prendere esempio da lei che continuò a salire sul palco fino a età avanzata, quando per giunta era profondamente malata?

17 marzo 2010
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