Sarà anche divertente comporre dei vadecumche spieghino agli aspiranti romanzieri come evitare di sprecare il loro tempo perseguendo una così ingenua illusione (vedi il Manualetto di Paolo Albani), come mettere da parte la folle e inutile abitudine dello scrivere, come evitare l'umiliazione, cocente quanto inevitabile, del rifiuto e del fallimento.
Volente o nolente, chiunque lavori nel campo dell'editoria si vedrà recapitare regolarmente dei dattiloscritti da tali aspiranti scrittori, ansiosi come sono di ricevere qualche parola di incoraggiamento, o di trovare qualche spiraglio che potrebbe condurli al paradiso della pubblicazione. Se chi riceve si prende anche la briga di leggere, avrà poi il compito ingrato di informare chi scrive che non ha nessuna speranza di veder pubblicato il frutto delle sue fatiche. Dopo una decina, forse un centinaio di esperienze di questo genere, è inevitabile che qualche scrittore voglia prendersi una rivincita, facendosi beffe di chi si presenta armato di tante pretese e poco talento. Paul Theroux racconta come V. S. Naipaul fosse solito concedere un breve colloquio a chiunque lo scomodasse con il proprio capolavoro inedito, durante il quale gli ingiungeva con la massima solennità di smetterla, di rinunciare a scrivere, di accettare che la vita può essere felice e onorevole anche senza gli allori poetici.
Sarà pure divertente. Ma perché chi non è minimamente coinvolto sorride e gioisce tanto, quando legge queste storie? Il Manualetto per l'autore ignorante di Tuena e l'altro di Albani e i consigli spiazzanti di Naipaul rafforzano e irrigidiscono una gerarchia che innalza l'artista carismatico sulla cima del Parnaso e sprofonda l'uomo qualunque in fondo a un abisso: scalare le muraglie di ghiaccio dalla base alla vetta è impensabile. Riprendendo le parole del Nobel Naipaul, il lettore senza progetti letterari si compiace che l'autore che ammira sia davvero un essere speciale; esso si muove in un'aria rarefatta e merita pienamente la sua adulazione; allo stesso tempo, quasi come ricompensa per la sua lealtà ai grandi, viene invitato a sentirsi anche intelligente, addirittura saggio, in quanto ha saputo accontentarsi della propria condizione di uomo ordinario. Per quanto privo di qualità eccezionali, è pur sempre superiore al povero fesso che osa fare confusione tra le due categorie, scribacchiando senza sosta e immaginandosi chissà chi.
In breve, anche se presentata in veste sardonica e ammiccante, siamo di fronte a una posizione fortemente romantica, se non mistica, la stessa alla quale si ispira l'odioso film «Amadeus», nel quale il pubblico gode dell'umiliazione del povero Salieri davanti al genio di Mozart. Noi sì che riconosciamo quel genio, noi sì che siamo abbastanza lucidi da non cercare di emularlo. Che Dio ci salvi dalle ambizioni idiote! Tale è la posizione del romantico Keats quando sostiene che, se la poesia non viene "naturally", sarebbe meglio che non venisse affatto. L'artista è predestinato, guai a voler essere quello che non si è. In breve, la mediocrità si riscatta quando riconosce e accetta i propri limiti, mettendo l'artista su un piedistallo e adorandolo.
Per quanto questa versione sia conveniente per lo scrittore già affermato, è evidente che la realtà è più complicata e sfumata. La fortuna gioca un ruolo importante nella carriera di qualunque artista. Per l'aspirante romanziere, farsi leggere dalla persona giusta al momento giusto sarà cruciale. La cosa più difficile per il giovane che voglia investire tempo ed energie nella scrittura sarà capire, dopo aver scritto un libro, o due o tre, se valga davvero la pena continuare, se sia effettivamente bravo e se qualche editore riconoscerà mai quella bravura, sempre ammesso che ci sia. A rendere questa decisione ancor più tormentata è la consapevolezza che molti dei libri pubblicati, e anche osannati, sono assolutamente privi di attrattiva e talento.
Come comportarsi, allora? Annoiato dal mio progetto di dottorato a Harvard, cominciai a scrivere a 23 anni, cioè nel 1977. La reazione del professore al quale mostrai il mio primo romanzo di quattrocento pagine fu a dir poco sprezzante: «Si concentri sulla tesi, signor Parks». Abbandonai invece il dottorato e me ne tornai a Londra, dove presi a lavoricchiare qua e là per avere il tempo di scrivere. Imitando prima un autore, poi un altro, nel giro di due anni scrissi tre romanzi, tutti prontamente rifiutati da varie case editrici e agenti.
A venticinque anni, ormai sposato con un'italiana e ansioso di portare a termine il mio fallimento lontano dagli sguardi irrisori di parenti e amici, mi trasferii a Verona; scrivevo la mattina, e il pomeriggio insegnavo l'inglese alla buona borghesia nelle scuole private.
Raggiunti i trent'anni, avevo scritto otto romanzi. Di ogni nuovo dattiloscritto preparavo cinque fotocopie che mandavo ad almeno venti tra agenti e case editrici. Senza alcun successo. Era chiaro che ero un incapace. Non ero predestinato. Perfino mia moglie, seppur generosissima nel suo appoggio, cominciava a nutrire qualche dubbio. Era ora di smetterla? Mandai il mio romanzo più breve (per non scocciare troppo) al mio vecchio tutor di Cambridge. «La prego, legga qualche pagina. Mi dica se vale la pena continuare».
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