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La rinascita dalle ceneri dello statalismo

di Paolo Bricco

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«Giulio Andreotti, a noi, ci ha salvato. Ha portato l'industria del nord. Ha costruito le strade. I soldi, qui, non sono mai mancati: eravamo la prima provincia del Centro-Sud con la Cassa per il Mezzogiorno. Me lo ricordo: il Presidente andava sempre a mangiare da Bassetto, a Ferentino, con Nino Manfredi».
Nel racconto di Gianni il taxista, tutto il giorno a guidare sulle disordinate strade di Frosinone, c'è un mondo che ormai è scomparso: il governo capillare e ultrainterventista dell'andreottismo, vero baricentro strategico per un pezzo di Lazio che fra il 1950 e il 1990 ha sperimentato un passaggio alla modernità industriale da una società interamente rurale, i denari pubblici a pioggia, la scelta delle imprese del nord di insediarsi per usufruire di incentivi diretti e di sgravi fiscali.
«Oggi - riflette Michele Tagliaferri, 37 anni, avvocato che dopo avere esercitato per cinque anni fra Frosinone e Roma è andato nel 2002 alla Georgetown University per un master, rimanendo poi a lavorare a Washington nello studio Sidley Austin - tutto questo non c'è più. E probabilmente è una cosa positiva. Frosinone e la sua provincia nella Prima Repubblica hanno goduto di un benessere diffuso. I consumi sono sempre stati alti. Ma era una qualità della vita che doveva passare per le logiche della politica, che non erano avulse da fenomeni clientelari».
Industrializzazione atipica
Anche il tipo di industrializzazione, per cinquant'anni, è strettamente dipeso dai grandi insediamenti delle aziende pubbliche romane e del capitalismo settentrionale. «Non c'è mai stato - racconta Giuseppe Zeppieri, amministratore delegato della Banca della Ciociaria, piccolo istituto indipendente controllato dalla sua famiglia con una partecipazione del Credito Valtellinese - un sistema di imprese che si sia sviluppato autonomamente. Intendiamoci: non tutto è stato un male. È rimasto molto di quanto artificialmente ha portato la politica democristiana. Inoltre, il fenomeno delle imprese del nord che prendono i soldi e poi scappano, qui, è risultato di gran lunga minore di quanto non sia successo al sud. Ma, certo, adesso la scommessa è la costruzione di un'economia non più sovvenzionata, cosa impossibile visti i conti pubblici nazionali, e in grado di operare non più in esclusiva simbiosi con gli stabilimenti di Fiat e di Finmeccanica».
La provincia di Frosinone, che nell'attuale scenario politico non ha più un referente dell'influenza e della statura di Andreotti, ha un Pil procapite di 25.204 euro (6.300 euro in meno rispetto alla media regionale e tre punti percentuali in meno della media italiana, cinquantaseiesima provincia su 103) con un tasso di disoccupazione dell'8,4%, che sale addirittura al 12,5% per le donne. La sfida attuale consiste nella costruzione di una nuova identità che sia formata da più elementi, nessuno dei quali decisamente preponderanti sugli altri: sede degli stabilimenti di Fiat (4mila gli addetti a Cassino-Piedimonte San Germano) e di Finmeccanica (965 gli occupati di AgustaWestland fra Frosinone e Anagni), ma anche reticolo di alcune piccole imprese in grado di emanciparsi dalla loro natura di semplici terziste; inevitabile provincia satellite di Roma (è impressionante al mattino presto osservare in autostrada la sequela di furgoncini di piccole ditte edili diretti verso la capitale), ma pure angolo di un Centro Italia che, con i suoi borghi medievali e una natura molto bella e tutto sommato esclusa dai classici circuiti turistici, ha una sua autonomia rispetto a Roma.
Vocazione manifatturiera
«La nostra provincia - osserva Arnaldo Zeppieri, presidente di Confindustria Frosinone - ha una vocazione manifatturiera. Che, però, tende inevitabilmente a diminuire, da noi come in tutta Italia. Non possiamo non tentare di arricchirla con una diversificazione turistica, ancora tutta da definire. Su questo fronte, è necessario un coordinamento fra gli enti locali e servono più infrastrutture, in primis un aeroporto. Abbiamo già uno scalo militare, che con un investimento di 150 milioni di euro potrebbe essere trasformato». Un aeroporto che, nella speranza degli imprenditori, possa indurre le Ferrovie dello Stato a migliorare i collegamenti con Roma, oggi da anni 50, sfruttando anche il potenziale del già esistente nodo dell'Alta velocità.
In ogni caso il manifatturiero, che pesa ancora per circa un terzo sulla capacità della provincia di creare ricchezza, resta la spina dorsale dell'economia locale. Un esempio del suo tessuto di piccole imprese è la Mecal, la Meccanica Aeronautica Liburdi, un'azienda di Ceccano con una cinquantina di dipendenti, situata in un'area industriale confinante con un antico casale adoperato per custodire greggi di pecore, che nel 2007 ha fatturato 4 milioni di euro (erano 2,8 milioni nel 2004). Il suo rapporto principale è con il gruppo Finmeccanica: l'aeronautica vale il 40% dei suoi ricavi. Il 30% è invece garantito dall'automotive, in particolare dalla Agc, per cui la Mecal produce gli strumenti con cui sono realizzati i cristalli poi montati sulle Toyota. «Comunque il nostro core business resta l'aeronautica - spiega Pablo Liburdi, trentaseienne direttore generale -: in particolare ci siamo specializzati in elicotteristica». In una piccola imprenditoria che fa molta fatica a gestire con razionalità e successo il passaggio generazionale, la Mecal sembra avere già affrontato questo tema spinoso. Carlo Liburdi, che l'ha fondata nel 1985, ha ancora il 2% della società: il resto è diviso fra il figlio Pablo e la figlia Laura, trentottenne. «Mio padre - afferma quest'ultima, che si occupa di acquisti - in azienda segue ancora un aspetto strategico: la formazione. Per noi il capitale umano è fondamentale. E, in un comparto tanto avanzato, è difficile da reperire».
  CONTINUA ...»

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