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Medio Oriente / La scelta inquieta della democrazia

di Mai Yamani (saggista ed esperta di Medio Oriente)

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3 gennaio 2010

Il Medio Oriente continua a essere caratterizzato dalla più grande concentrazione al mondo di dittature, ma il 2009 è stato l'anno in cui la democrazia è sembrata mettere radici nella regione. Nonostante ciò, il futuro appare quanto più demoralizzante possibile.
Nei territori palestinesi, il governo di Hamas democraticamente eletto a Gaza e il presidente dell'Autorità palestinese democraticamente eletto sono paralizzati in una morsa che appare mortale, che ha visto Gaza precipitare in un buco nero economico, mentre l'intransigenza israeliana guadagnava sempre più spazio. Nel frattempo il presunto salvatore politico, Marwan Barghouti, si trova in una prigione israeliana, all'ergastolo. Intanto l'esito delle elezioni presidenziali in Iran è stato falsificato da brogli, e questo ha spaccato l'élite al governo e lasciato le autorità più sospettose e isolate che mai dai tempi della guerra Iran-Iraq degli anni 80. Lì accanto, il presidente afghano ha deciso pressoché nello stesso modo di non affidare alla sorte – o al popolo afghano – la chance di essere rieletto.

Questi sono solo alcuni dei segnali che hanno evidenziato come nella maggior parte dei casi gli esperimenti democratici in Medio Oriente negli ultimi anni abbiano più che altro acuito l'instabilità. Talvolta la causa di questa instabilità è radicata in problemi di successione, frodi elettorali, corruzione, assenza di legalità, violazione dei diritti umani, o vera e propria discriminazione etnica. A prescindere da quale sia questa causa, le popolazioni della regione sono sempre più irrequiete e il divario tra chi governa e chi è governato si sta espandendo.
Gli stati mediorientali sono caratterizzabili con tutta una serie di aggettivi che iniziano con la medesima lettera «F»: falliti, frenati, flessibili, floridi o feroci.

Lo Yemen, per esempio, oggi è uno stato fallito: le sue istituzioni politiche non funzionano più, e ciò ha innescato una guerra civile nel Nord del paese e istanze separatiste nel Sud. A mano a mano che lo stato yemenita si sgretola, al-Qaeda vi trova riparo e protezione.
Tra gli stati frenati c'è l'Arabia Saudita, dove la parola democrazia è bandita dal vocabolario, le elezioni anche solo limitate e parziali sono state rinviate, e la successione al trono rimane un segreto. Gli stati frenati o paralizzati appaiono più stabili sul breve periodo, poiché le entrate dovute al petrolio tuttora comprano la sottomissione della maggior parte della popolazione; ma la stabilità coincide con la possibilità di violenze in aumento e agitazione della popolazione.

Gli stati considerati flessibili nella regione sono terrorizzati dalla guerra: la maggior parte di essi l'ha vissuta in tempi recenti ed è pertanto impaziente di trovare stabilità e sviluppo economico. Malgrado lotte settarie – specialmente in Iraq e in Libano - alcuni stati flessibili auspicano di ricostruire la loro stabilità con consultazioni elettorali. Come abbiamo visto in Libano e in Iran nel 2009, probabilmente altri paesi non potranno fare altrettanto.

I piccoli emirati del Consiglio per la cooperazione del Golfo – con la sola eccezione di Dubai, oggi traballante – sono stati floridi, che hanno fatto ingresso nell'economia globale grazie a riforme economiche e politiche. Gestire il processo d'integrazione sociale e politico non è difficile per gli stati che godono di particolare fortuna dal punto di vista di un'ubicazione felice, lungo una delle più importanti rotte commerciali del mondo, come pure di tradizioni di spirito cosmopolita, commerci, ingenti ricchezze derivate dal petrolio e popolazioni ridotte.

Gli stati feroci o agguerriti nella regione sono gli Stati Uniti: dopo l'11 settembre hanno cercato in modo assillante d'indurre i cambiamenti di regime e di esportare la democrazia, politica sbagliata e fallita che oggi pare precludere agli Usa la capacità di andarsene dalla regione. La nuova amministrazione a Washington ha sostituito l'enfasi americana sulla democratizzazione del Medio Oriente con un approccio più realistico nel 2009, ma Barack Obama ha altresì amplificato le aspettative di una trasformazione delle relazioni statunitensi con quella regione. Potrà aver luogo senza democratizzazione?

In seguito alla violenza che ha caratterizzato le elezioni presidenziali in Iran di giugno, per gli stati e le popolazioni della regione la questione democratica è assurta a una posizione di primo piano. In Iran si sta affermando un movimento spontaneo e locale che sta esercitando pressioni per ottenere riforme. In realtà, ad esercitare forti pressioni per un cambiamento sono anche le forze demografiche e le tecnologie della globalizzazione. Una popolazione numericamente in crescita di giovani è sempre più esposta alle influenze dall'esterno e alle comunicazioni con i coetanei nella regione, grazie agli spostamenti e ai viaggi, alla tv satellite, a Internet, come mai prima d'ora. Tutto ciò ha naturalmente aumentato la pretesa di diritti sociali e politici, di maggiori opportunità economiche, sottoponendo a più forti tensioni e preoccupazioni i regimi autoritari.

In verità i cambiamenti politici in Medio Oriente nel 2010 e oltre diverranno sempre più una questione interna. A meno che la politica settaria non sia quanto prima sostituita dall'integrazione, tutti i vari tipi di stato caratterizzati da una “F” resteranno in una situazione di prolungata irrequietezza.
© Project Syndicate 1995–2009
(Traduzione di Anna Bissanti)

3 gennaio 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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