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Le banche tengono ma ora sono i soci a contare di più

di Orazio Carabini

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24 novembre 2009

Qualcuno la chiama «percezione», altri parlano di «impressione» o di «sensazione». Fatto sta che i banchieri italiani, in questi mesi, hanno temuto che il potere politico volesse ricondurre il sistema creditizio sotto il controllo pubblico. E che la profonda trasformazione degli ultimi 15 anni potesse essere messa in discussione.
Certo, all'origine del problema c'era una discontinuità straordinaria come la crisi finanziaria, la cui responsabilità principale ricade proprio sulle banche. Magari non su quelle italiane che, ancorate a un modello di business più tradizionale, hanno contribuito meno agli eccessi della finanza.

Eppure il meccanismo della contrapposizione è scattato in Italia come in altri paesi. Con i politici che, in nome del popolo, addossavano alle banche le colpe del disagio diffuso. A farsi paladino della linea dura è stato il ministro dell'Economia Giulio Tremonti, che ha rivolto accuse pesanti ai banchieri. Soprattutto nella fase-due della crisi, quando il forte rallentamento congiunturale seguito al crollo dei mercati finanziari ha messo in difficoltà le imprese. E le banche, vedendo crescere il livello dei crediti in sofferenza, hanno cominciato a erogare prestiti con molta attenzione.

Al di là delle querelle filosofiche, il vero casus belli si chiama "Tremonti bond", un modo giornalistico per definire i programmi di ricapitalizzazione volontaria che le banche possono avviare emettendo titoli ibridi (senza diritto di voto, rimborsabili in anticipo e convertibili in azioni su richiesta della banca emittente) da far sottoscrivere al Tesoro. È uno strumento che il governo vara in ossequio a una decisione presa dall'Ecofin, il consiglio dei ministri economici della Ue: se, in seguito alle perdite dovute alla crisi finanziaria, il patrimonio delle banche si riduce troppo, c'è il rischio che l'erogazione di credito rallenti bruscamente. Quindi, via libera all'intervento degli stati nel capitale.

Le condizioni inserite nel provvedimento italiano sui Tremonti bond però non piacciono alla gran parte dei banchieri. In particolare, dà fastidio che siano chiamati i prefetti, e quindi lo stato, a vigilare affinché il credito erogato all'economia non diminuisca. Non solo. Il costo fissato, quello che le banche dovrebbero pagare al Tesoro, viene giudicato anti-economico non appena le condizioni dei mercati si stabilizzano e gli istituti tornano a raccogliere fondi senza i problemi dei mesi più difficili (ottobre-novembre 2008).

Qual è stato il risultato di questo braccio di ferro? Poche banche hanno sottoscritto i Tremonti bond: Montepaschi, Banco Popolare, Popolare di Milano, Credito valtellinese non arrivano a un quarto dei 12 miliardi a disposizione, da finanziare con un aumento del debito pubblico. E il credito si è effettivamente ristretto, penalizzando soprattutto le piccole imprese.

Nonostante i banchieri sostengano che la flessione dipende dalla minor domanda di prestiti («Chi investe con una recessione tanto profonda?», si chiedono tutti) Tremonti si arrabbia. Non basta che le banche concordino con tutte le associazioni di rappresentanza delle imprese una moratoria per chi è in difficoltà a rimborsare. A Cernobbio, all'inizio di settembre, l'offensiva del ministro raggiunge il suo apice: «Chi non usa i bond va contro gli interessi del paese, erogare credito è un dovere costituzionale». I banchieri decidono che la misura è colma. Il 1° ottobre il presidente dell'Abi, Corrado Faissola, incontra a Palazzo Chigi Gianni Letta, braccio destro di Silvio Berlusconi, per fargli presente come i ripetuti «attacchi reputazionali» del ministro danneggino il sistema. Tremonti lo viene a sapere e il giorno dopo minaccia le dimissioni davanti a Berlusconi: «O lui o io», avrebbe detto riferendosi all'intervento di Letta.

Ma l'8 ottobre Faissola scrive una lettera circostanziata direttamente a Berlusconi, ottenendo un risultato significativo: con una mossa del tutto inusuale, il presidente del Consiglio, in occasione della Giornata del risparmio (29 ottobre), scrive al presidente dell'Acri Giuseppe Guzzetti una lettera in cui riconosce che il sistema italiano ha affrontato la crisi in condizioni migliori di quelli degli altri paesi, che deve rafforzare il suo radicamento nel territorio per valutare meglio il merito di credito della clientela e che però non vanno ignorate «le difficoltà che anche le banche attraversano nel loro quotidiano operare».

Il 4 novembre tocca a Giorgio Napolitano ricevere Faissola. Nel successivo discorso ai Cavalieri del lavoro il presidente della Repubblica inserisce un passaggio significativo: «Faccio mio, certamente, il giudizio positivo ribadito innanzitutto dal governatore Draghi sulle prove che dinanzi alla crisi ha dato di sé il nostro sistema bancario, di cui peraltro non sono state ignorate le sofferenze cui è oggi esposto e a cui sono state nello stesso tempo indirizzate alcune importanti raccomandazioni come quella relativa alla necessità di un "intelligente, prudente, selettivo sostegno del credito" al processo di ristrutturazione delle imprese che deve ancora intensificarsi ed estendersi».

  CONTINUA ...»

24 novembre 2009
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