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2010, un anno per ricominciare

 
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E Krugman apre al protezionismo

di Micaela Cappellini

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2 Gennaio 2010

Il 2010 anno della Cina? Potrebbe non essere un complimento riferito al suo Pil in corsa del 9,5 per cento. Sul New York Times di ieri, il premio Nobel Paul Krugman affronta il grande tema della svalutazione dello yuan e della guerra commerciale di Pechino con gli Stati Uniti senza mezzi termini. La politica finanziaria cinese è definita, letteralmente, «predatoria». Un mercantilismo che potrebbe «finire col ridurre l'occupazione americana di circa 1,4 milioni di posti di lavoro».

Pechino, sostiene Krugman, spinge in alto il proprio surplus commerciale con mezzi artificiali, più precisamente mantenendo agganciato lo yuan a 6,8 contro dollaro. Sarebbe così che l'industria manifatturiera dell'ex Celeste Impero può permettersi di godere di un ampio vantaggio sui costi di produzione rispetto ai concorrenti d'oltreoceano.

Grazie a questa competitività truccata, in Cina sbarcano fiumi di dollari che invece sarebbero utili alle economie depresse dell'Occidente. E che finiscono col non essere utilizzati nemmeno per accrescere i portafogli degli oltre 1,3 miliardi di consumatori cinesi. In passato, quanto meno - sostiene Krugman - l'accumulo di valuta straniera da parte della Cina è servito a mantenere bassi i tassi di interesse attraverso l'acquisto di bond a stelle e strisce. Ma il costo del denaro oggi non è più il problema che era.

Per il Nobel americano, insomma, è giunto il momento che Pechino intervenga. Altrimenti le misure protezionistiche attuate da alcuni paesi nei suoi confronti, come ad esempio i recenti dazi imposti dal presidente Obama alle importazioni degli pneumatici cinesi, sono da considerarsi giustificate. Perché non è vero, scrive Krugman, che il protezionismo è sempre una cattiva cosa. Quando il tasso di disoccupazione è alto, e un governo non è in grado di ripristinare il pieno impiego nel proprio paese attraverso la spesa pubblica, lo schema tradizionale salta, e la difesa a spada tratta, sempre e comunque, del libero scambio potrebbe non essere la via migliore.

Che si sia pro oppure contro le barriere commerciali, è indubbio che il tema della svalutazione dello yuan cinese, come il maggior peso dell'Estremo Oriente sulle rotte mondiali delle merci, sarà al centro del palcoscenico di questo 2010 appena iniziato. Lo è nell'America di Obama, che nel suo viaggio storico a Pechino, lo scorso novembre, ha incassato un sonoro rifiuto da parte dei vertici della Repubblica popolare a considerare un apprezzamento dello yuan. Lo è in Europa: dove l'euro forte penalizza le esportazioni; dove Martin Wolf, dalle colonne del Financial Times e del Sole 24 Ore, ha ricordato di recente al premier cinese Wen Jiabao che la sua politica di tenere basso il tasso di cambio equivale a un sussidio all'export, ed è tanto protezionistica quanto i dazi di cui il primo ministro di Pechino accusa il resto del mondo. E lo è in Italia, che non è immune dalla crisi dell'occupazione.

Ma come ogni moneta, anche quella cinese ha due facce, e sull'altra potrebbe non esserci disegnato il diavolo. La chiave di volta, lo ricorda lo stesso Paul Krugman, potrebbero essere i consumatori cinesi. I frutti del surplus commerciale non arricchiscono i loro portafogli, sostiene il Nobel americano. Non ancora. Non abbastanza. Ma lo stesso governo di Pechino già da tempo ha cominciato a sostenere la domanda interna, e continuerà a farlo anche in questo 2010. La competitività delle fabbriche del Dragone, ha ricordato di recente Innocenzo Cipolletta dalle colonne del Sole 24 Ore, è poco nel tasso di cambio, e molto nei bassi costi di produzione, in particolare del lavoro.

L'altra faccia dello yuan, secondo alcuni, è la crescita della capacità di spesa ottenuta grazie agli introiti delle merci vendute all'estero. L'altra faccia potrebbe essere la classe media, che in Cina le stime di McKinsey quantificano in 270 milioni di famiglie nel giro di quindici anni. Cittadini con un reddito fra i 5mila e i 12mila dollari all'anno. Parametrati al costo della vita di Pechino, fanno tra i 20 e i 54mila dollari di un paese occidentale. Un pubblico che potrebbe valere la pena conquistare.

2 Gennaio 2010
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