«...
PAGINA PRECEDENTE
Leadership al femminile
La rappresentanza delle donne ai vertici delle imprese italiane è ancora bassa: ricordano Micol Fornaroli e Daniela Scaramuccia di McKinsey che la cosiddetta leadership femminile vale un misero 4% e ci posiziona in coda alla classifica europea, staccati anche da Bulgaria e Romania (12% ciascuna).
Il prezzo di essere donna, tra i manager di una piccola o media impresa italiana, è ottomila euro lordi all'anno di stipendio in meno rispetto ai colleghi. La buona notizia è che il gap retributivo era 20mila euro cinque anni fa. La situazione va migliorando, secondo Federmanager. Però la differenza resta inaccettabile, anche perché il recupero è costato troppo alle donne: il 43% non ha figli. La quota di dirigenti donne resta inchiodata all'8,5% nelle Pmi industriali, dove prevale un'organizzazione destrutturata.
Eppure, le top manager sono poche, ma brave. Le manager ai vertici delle 2.652 imprese italiane (rilevate da Cerved) a guida femminile generano più ricavi e profitti dei colleghi in vetta alla maggioranza delle aziende. Non solo. Se nei consigli di amministrazione siede almeno una donna, il rischio di default o crisi aziendale è minore. Lo afferma una ricerca Cerved basata su uno dei maggiori database del nostro Paese. I dati confermano quanto già appurato a livello internazionale dagli studi Catalyst e McKinsey: le imprese a guida femminile hanno performance gestionali e finanziarie superiori alle medie di settore.
Maternità
Secondo l'indagine Isfol "Maternità, lavoro e discriminazioni", in Italia il 13,5% delle donne esce dal mercato del lavoro a causa di discriminazioni subite al rientro dal periodo di maternità o per l'impossibilità di conciliare tempi di vita e di lavoro, in assenza di strutture sociali adeguate, o ancora per l'inadeguatezza del partner percepito come aiuto occasionale dal 41% delle intervistate. Mobbing in varie forme, esclusioni da progetti importanti, richiesta più o meno velata dai datori di lavoro di posticipare una gravidanza, comportamenti scorretti concorrono fortemente, secondo l'Isfol, a uscire dal mercato del lavoro. A perdere il posto dopo un figlio sono il 12% delle donne. Mentre il 15% di inoccupate prima della gravidanza non troverà mai più un lavoro a bambino nato.
Per quanto riguarda la leadership al femminile, scarseggiano, nel nostro Paese, modelli femminili equilibrati di successo, nel campo del lavoro. Le donne più in vista nel nostro Paese, nella ricerca, nella politica, o nelle imprese, spesso non ha figli. Chi li ha, spesso è figlia degli imprenditori fondatori dell'azienda in cui lavora o ha pagato a caro prezzo la conciliazione tra carriera e famiglia.
Tutti gli studi raccomandano più meritocrazia, flessibilità oraria e servizi sociali di sostegno alla famiglia per conciliare tempi di vita e di lavoro.
Opt-out
Diversi libri e media americani hanno di recente fatto tornare in auge la libera scelta dell'opt-out ("tirarsi indietro"), vale a dire la decisione di licenziarsi dopo le maternità, per dedicarsi meglio alla famiglia. Il besteller di Leslie Bennetts "The feminine mistake", che ha avuto ampia eco, pubblica però diversi studi che dimostrano come, spesso, l'opt-out sia il prendere atto (più o meno consapevolmente) che si è gentilmente accompagnate verso l'uscita dal mercato del lavoro, in quanto le lavoratrici mamme sono considerate meno produttive di prima. In altri casi, invece, le donne citate negli studi si licenziano perché adibite a lavori che non le valorizzano appieno o perché "è questo che la società si aspetta da loro". Naturalmente, esiste anche una quota di ex lavoratrici consapevolmente felici di cambiare vita e fare le casalinghe, supportando piuttosto il marito nella sua carriera, come scritto di recente da Megan Basham nel libro "Beside every successful man: a woman's guide to having it all". Ma gli studi pubblicati da Bennetts dimostrano che se una donna con istruzione superiore si licenzia, negli Usa perde in media un milione di dollari di reddito nell'arco della sua vita e mette a rischio-povertà la sua famiglia, se non ha proprietà che garantiscano entrate autonome da mariti o genitori.
Pensioni
La Corte di Giustizia Ue ha imposto all'Italia l'equiparazione dell'età pensionabile delle donne a quella degli uomini, nel pubblico impiego, eliminando per le donne la possibilità di andare in pensione cinque anni prima degli uomini. La differenza di cinque anni - da 60 a 65 per le pensioni di vecchiaia – rappresenta una discriminazione per le donne che vogliono continuare a lavorare. L'età pensionabile di uomini e donne deve essere la stessa perché non è più plausibile compensare le donne con una via di fuga dal lavoro anticipata per riequilibrare i carichi di lavoro sociali – si legga la cura di figli e genitori anziani – quasi interamente sulle spalle delle donne. Però, andando prima in pensione, la donna rischia la povertà perché incassa una pensione più bassa. Nel 2006, l'importo medio annuale dei redditi pensionistici per un uomo era pari a 15.990 euro rispetto a 11.133 euro percepiti in media dalle donne. Le diversità negli importi medi derivano dalla forte concentrazione delle donne nelle classi di importo pensionistico basso e dai "buchi contributivi" che caratterizzano le donne, a causa dei periodi di inattività o di lavoro "in nero" tipici delle loro carriere lavorative.
CONTINUA ...»