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Quando Cina e India fanno guerra alla pazienza

di Paolo Bricco

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17 settembre 2009

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«Abbiamo tagliato i costi operativi all'osso - sottolinea Zoni - cercando di non toccare la forza lavoro, che rappresenta il nostro capitale principale». Quest'ultima espressione non è retorica da piccolo imprenditore. Entri nello stabilimento e ti sembra di essere all'incrocio fra un'azienda manifatturiera di buon contenuto tecnologico e una bottega di epigoni del Cinquecento lombardo, la pittura realista sottratta all'oblio dal critico Roberto Longhi e tanto amata da Pier Paolo Pasolini e da Giovanni Testori. Sì, perché in un ambiente sbuffano le macchine a getto d'inchiostro («meno male che abbiamo terminato gli investimenti prima dell'arrivo della grande crisi», sospira Zoni) mentre nello stanzone vicino, chini sui tessuti, lavorano con un'abilità manuale non riproducibile dalla tecnica gli specialisti che dipingono a mano la seta. Dei 12 milioni di ricavi, il 60% è ottenuto con le esportazioni: la metà negli altri paesi dell'Unione Europea, un quarto in Oriente e una piccola porzione negli Stati Uniti.

Con le sue sete, questa piccola azienda fornisce i principali brand del lusso femminile: fra gli altri, Louis Vuitton, Chanel, Dior, Balenciaga, Prada, Armani, Valentino e Versace. «Fin da quando mio padre lavorava per Yves Saint Laurent - ricorda Adriana Verga - il mercato estero è stato fondamentale per il nostro sviluppo». Un'opzione strategica, direbbero i manuali di management. Qualcosa che è venuto naturale, provando e riprovando, risponderebbero a Bulgorello. «Soltanto che - dice Adriana - non sempre tutto è facile». Non tutto è facile proprio là dove, oggi, le possibilità sarebbero migliori. In Cina, per esempio, questa impresa fattura attraverso due agenti un mezzo milione di euro all'anno, vendendo a confezionisti che stanno imparando a realizzare abiti di qualità elevata: Red Stone a Shenzhen, White Collar a Pechino, Ports a Xiamen-Fujan, Shiatzy a Pechino, Shanghai e Taiwan.

«Il problema - continua Adriana Verga - è rappresentato dalla complessa procedura preliminare a cui sono sottoposti i nostri tagli. Le autorità cinesi effettuano test secondo parametri per noi incomprensibili». E, così, capita che la Cina, la cui industria tessile non è sempre perfettamente in linea con gli standard qualitativi e di sicurezza internazionali, tenga fermi prodotti che vanno bene per i maggiori marchi occidentali. «Non le dico per sbloccare queste situazioni - aggiunge Verga -: fax, telefonate, mail. Per fortuna capita con i tagli, mentre la merce è ancora qui, a Bulgorello. Pensi il danno se i container fossero già in Cina». Cosa che, invece, accade alle aziende italiane che provano a mettere il naso in India.

«Qualche volta alla fiere - dice Zoni - incontriamo un compratore indiano. Poi, però, non si conclude nulla. In India, semplicemente, non si entra. Le casse restano ferme alle dogane per settimane e settimane». Va bene la sicurezza. Vanno bene le norme sulla infiammabilità («adesso gli Stati Uniti pretendono che la seta, a contatto con il fuoco, non s'incendi per un determinato numero di secondi: peccato che, con le sostanze che devi aggiungere, non sia più seta»). Va bene tutto. Ma fino a un certo punto. «Vorrei sapere - chiede Adriana Verga - per quale ragione noi siamo sottoposti a mille regole e controlli, mentre nessuno, ripeto nessuno, verifica quello che entra nell'Unione Europea. Perché la burocrazia di Bruxelles non si muove?».
Così, in una sala riunioni in legno scuro, piena di sete di mille colori, lontanissima da Bruxelles e da Pechino, da Mumbai e da Los Angeles, questa famiglia d'imprenditori ricorda l'ultima analisi del Centro tessile serico di Como, effettuata su un campione di prodotti finiti e di tessuti importati in prevalenza dall'Asia: uno su quattro è fuorilegge per una errata etichettatura, il 16% contiene azocoloranti cancerogeni e il 10% presenta entrambi i problemi.

La Herno, invece, conosce soprattutto l'"altra Asia": il Giappone, magari senza tassi di crescita a doppia cifra, probabilmente a rischio di stagflazione, senz'altro post-moderno e ipertecnologico. Per questa azienda, un altro dei rari casi del tessile italiano "no cig", si tratta di un mercato chiave. Su 21 milioni di ricavi, là se ne fatturano 6,5: esattamente come l'Italia. «Mio padre Giuseppe - racconta Marenzi - ci ha messo piede nel 1969». Gli affari s'intrecciano con le storie delle persone. «Seji Okuda, il nostro rappresentante, è diventato amico di mio papà. Non hanno mai firmato un contratto. Hanno sempre fatto tutto sulla parola». Il figlio di Seji, Tomoaki, è venuto qui, sul Lago Maggiore, a vent'anni. Doveva essere per un breve periodo di lavoro. Si è innamorato di una ragazza italiana, l'ha sposata e non è più ripartito. Fra Lesa e Tokyo sono dunque successe molte cose. Mentre nei grandi magazzini e nei negozi di Ginza Dori e Harumi Dori veniva venduto l'abbigliamento sportivo concepito nell'Alto Novarese, Herno riorganizzava la sua struttura produttiva: dai 600 addetti diretti di fine anni 80, gradualmente è sceso fino agli attuali 110, a cui però vanno aggiunti gli altri 500 che oggi lavorano in sette laboratori esterni, controllati con quote rilevanti dalla famiglia Marenzi.
  CONTINUA ...»

17 settembre 2009
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