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La recessione si ferma ai confini di Mirandola

di Paolo Bricco

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24 settembre 2009

MIRANDOLA. Dal nostro inviato
«Per resistere, resistiamo. Sa, noi qui a Mirandola ne abbiamo avute tante, di medaglie d'oro alla resistenza». Ha ancora voglia di scherzare, sotto un cielo di fine estate pesante di afa e umidità che perfino le zanzare sudano, il signor Aldo, trent'anni da impiegato nelle aziende del biomedicale.

Le cose, qui, vanno tutt'altro che male. Almeno per ora. La grande crisi, che sta svellendo le radici più fragili e meno profonde del nostro capitalismo di territorio, non sembra avere prodotto troppi effetti. Per Confindustria Modena, nei primi cinque mesi dell'anno il fatturato del biomedicale è salito dell'8,8%, gli ordini del 5%, le esportazioni del 7,8% e gli occupati del 4,8 per cento. Un'altra Italia, roba da miracolo economico o almeno da anni Ottanta, la stagione d'oro dei distretti.

Questi risultati sono ottenuti da un pezzo d'Italia autenticamente glocal, un esempio di meticciato industriale e antropologico in cui trovi multinazionali e aziende minuscole, laboratori di ricerca e manualità artigiana, accento emiliano e standard english parlato dai commerciali giapponesi e tedeschi, che qui vengono ad acquistare prodotti di medio-alto contenuto tecnologico a prezzi contenuti. Secondo la Camera di commercio di Modena, una impresa su tre produce apparecchi medicali per diagnosi e terapie come le siringhe, i deflussori per fleboclisi e i dispositivi usa e getta in plastica. Il 10% delle imprese realizza protesi ortopediche e il 20% apparecchi elettromedicali di ultima generazione: il primo rene articiale è stato fatto qui.

L'anno scorso i ricavi aggregati sono ammontati a 843 milioni di euro, il 40% dei quali ottenuti all'estero. Fra Mirandola e Medolla, ci sono la Gambro svedese (macchine per dialisi), le italiane Bellco (monouso e appecchiature per dialisi, cardiologia e terapia intensiva) e Sorin Group (ossigenatori per sangue e macchine per autotrasfusioni), l'americana Covidien (monouso per anestesia e rianimazione), i tedeschi di B. Braun (sacche per nutrizione) e di Fresenius (filtri per depurare il sangue). Queste aziende hanno 3mila addetti. In altre 70 piccole imprese, ci sono 1.500 occupati.

Tutto nacque dalle intuizioni di una persona, Mario Veronesi. Veronesi oggi è un signore di 77 anni, occhiali scuri di Prada e orologio d'oro Patek Philippe al polso. Dal 1954 al 1957 ha lavorato come "propagandista", allora si diceva così, della Pfizer, nei corridoi degli ospedali. Nel 1958, ha comperato una farmacia a Mirandola. «A contatto con i medici - rammenta Veronesi - mi ero reso conto che la sterilizzazione dei tubi in lattice, che poi venivano riutilizzati, era una faccenda complicata. Mi venne l'idea di farli in plastica e, soprattutto, usa e getta». Nel 1962, nel garage della sua abitazione, ha iniziato a realizzare set di tubi per infusione di sostanze o per trasfusione di sangue. «Allora Mirandola - dice - era un paesone agricolo. C'erano una carrozzeria, un salumificio, un calzaturificio e uno zuccherificio. Ricordo il mio primo assunto: si chiamava Pietro Pedrazzi, faceva l'operaio in Comune».

Veronesi ha fondato quattro aziende, tutte vendute a multinazionali. «Non mi sono mai affezionato alle cose - spiega - , ma sotto il profilo imprenditoriale non potevo fare altro. A un certo punto, per non congelare la loro crescita, ho dovuto cederle». Una costante che ha una precisa ragione strategica: per imporre i prodotti al di fuori dell'Italia, gli servivano reti commerciali di notevoli dimensioni. Il tempo e i soldi per realizzarle non c'erano. Dunque, meglio passare la mano. Una scelta che, osservata oggi, ha anche un'altra ragione: «Nel biomedicale - riflette Giovanni Foresti, economista dell'ufficio studi Intesa Sanpaolo - servono alti investimenti in innovazione, più facili per le grandi imprese».

La Bellco (350 addetti, 100 milioni di euro di ricavi) ogni anno investe in Ricerca & Sviluppo 3 milioni di euro. Anche se potrebbe fare di più. Ancora una volta, i deficit del sistema paese non sono meri esercizi retorici ma sassi che inceppano il meccanismo dello sviluppo. «Le aziende sanitarie locali pagano a 300 giorni - afferma Stefano Rimondi, direttore generale di Bellco - ogni anno noi spendiamo in interessi passivi 4-5 milioni di euro. Soldi che finiscono alle banche. Se fossimo un paese normale, 3 di questi milioni li metteremmo nella ricerca».

I crediti incassati con tempi biblici e l'innovazione. Anche qui, in un pezzo d'Italia che sembra preservato dalla grande crisi, la litania ansiogena su ciò che potrebbe andare storto nel futuro passa attraverso questi due temi. Luciano Fecondini, amministratore di Medica e presidente di Consobiomed, tira giù rapidamente due conti sul suo bloc notes: «I crediti non ancora incassati da ospedali e Asl ammontano nell'intero distretto ad almeno 350 milioni di euro. Abbiamo tutti, grandi e piccoli, un problema di liquidità: lo stato non ci paga, le banche lesinano il credito. Mi dica lei cosa possiamo fare». Dunque, sotto un profilo esteriore di grande salute c'è un virus che agisce: il deterioramento finanziario non può non riflettersi sulla politica degli investimenti e rischia di ridurre l'attività di innovazione.

  CONTINUA ...»

24 settembre 2009
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