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Invece non rappresenta ancora un'ammissione di questo stato di cose il fatto che sia in corso la rinuncia, di fatto, da parte delle principali economie occidentali di uno degli assunti fondamentali teorizzati nel ciclo del "turbocapitalismo": lo stato non è la soluzione del problema, bensì il problema. Lo stato viene potentemente richiamato in servizio, il mercato chiede soccorso alla politica. L'ordine di grandezza dell'intervento pubblico è sconvolgente. L'intervento dello stato configura delle nazionalizzazioni di fatto in gangli strategici delle economie. Eppure non è né il ritorno al keynesismo dei "30 anni gloriosi" né, tanto meno, la prefigurazione di un'uscita dalla crisi verso un modello economico e sociale diverso. Non basta lo spiazzamento, che c'è, sia delle culture neo-liberiste che di quelle "modernizzatrici". Vale la lezione di Bauman secondo cui il capitalismo crea problemi che non sa risolvere e per risolverli deve negare anche propri dichiarati fondamenti per uscire dalla contraddizione. La capacità d'innovarsi non viene certo meno nella crisi.
Lo sarà anche in questa crisi così profonda, strutturale e drammatica. Ma in quale direzione?
La discussione su quale modello economico vada perseguito è il centro reale della contesa in questa crisi. Se la politica non lo vede si condanna all'inutilità. Non c'è nulla d'astratto, di separato dai problemi concreti in questa consapevolezza. La spesa pubblica in disavanzo è una necessità, ma quel che incide della direzione di marcia è a cosa viene finalizzata, se o non si accompagna a una riqualificazione produttiva, a una conversione della produzione, dei servizi e della composizione dei consumi. L'intervento pubblico per salvare le banche e le imprese strategiche è una necessità, ma decide la sua natura la strada che intraprende, se cioè, contemporaneamente, si modificano o no gli assetti proprietari; se s'introducono o no forme inedite di democratizzazione dell'economia.
Il rafforzamento e la generalizzazione degli ammortizzatori sociali vanno bene, ma decide della qualità dell'intervento pubblico su questo terreno il non lasciare mano libera sui licenziamenti, come una significativa redistribuzione a favore dei bassi redditi, come la restituzione ai lavoratori di un reale potere di contrattazione e di controllo sull'organizzazione del lavoro e sulle scelte dell'impresa.
Ha ragione Delors quando parla contro l'arroganza del "brevitempismo". Riaprire, nella crisi, un discorso sulla programmazione e sullo spazio pubblico significherebbe mostrare di aver inteso la sfida della crisi, se è la crisi di un intero modello economico e sociale. L'Europa dovrebbe intenderlo prima e più di altri.