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In quanto debitore, il governo dipendeva dalla credibilità del suo mercato di obbligazioni. Soltanto un dollaro agganciato all'oro, Wall Street, e una politica monetaria severa potevano garantire questi fondi, la linfa vitale per la nascente crescita commerciale e industriale dell'America. Qual era l'alternativa? Una moneta svilita dalla rimonetarizzazione dell'argento o, dio non volesse, dell'indomito biglietto verde, avrebbe alimentato l'inflazione e svalutato la resa degli investimenti. Scoraggiare i Rothschild, i Barings e i Grenfell sarebbe stato catastrofico. Ma non era vero per l'America profonda. La sovrapproduzione aveva fatto calare il prezzo dei raccolti, e folle di coloni furono ridotte in miseria. Dalla loro disperazione, dall'Ovest, sorsero una visione e una voce. La visione era di una moneta bimetallica; dollari d'argento che aumentavano l'offerta senza correre il rischio di una moneta destabilizzata dalla carta. Depositi d'argento erano stati scoperti nel Nevada e nel Colorado, nelle terre stesse del Signore, e non aspettavano altro che essere coniati.
La situazione era aggravata dal fatto che soltanto un anno prima, nel 1895, Morgan aveva risolto un improvviso calo delle riserve auree negoziando un accordo con un sindacato di fornitori quasi tutti stranieri e intascando una lauta commissione. Contro il candidato repubblicano alla presidenza William McKinley si schierò il peggior incubo: William Jennings Bryan, ammiratore appassionato di Andrew Jackson, avvocato in una cittadina del Nebraska, predicatore laico, e già eletto al Congresso. Per chi l'aveva sentito nel circuito evangelico o al Congresso, era l'oratore più strabiliante che avessero mai incontrato. E Bryan era un democratico. Prima che trasformasse il partito, era un'organizzazione di perdenti. Dai tempi della guerra civile uno solo dei suoi membri, Grover Cleveland, era arrivato alla Casa Bianca ed era un fanatico dell'oro. Ma alla convenzione di Chicago nel luglio 1896, Bryan – anche se poi avrebbe perso le elezioni – rivoluzionò il partito, ne fece quello che avrebbe incarnato la causa dell'Uomo comune nei tempi bui, quello di Franklin Roosevelt, Lyndon Johnson e Barack Obama.
Andate su YouTube e sentirete Bryan pronunciare – o forse recitare – il discorso che fece quattro anni prima della morte nel 1925, ritenuto da molti il più grande della storia americana. Per quanto la registrazione sia ottima e melodiosa, non può sperare di riprodurre l'elettrizzante oratoria di Chicago. Bryan era stato preceduto da un demagogo ringhioso e razzista della Carolina del Sud, e da un apologo triste dell'oro. La platea era depressa. Saltò sul palco Bryan, in un completo d'alpaca dai pantaloni sformati. «Vengo a parlarvi in difesa di una causa sacra quanto la libertà, quella dell'umanità» (Lyndon Johnson ne ha quasi plagiato le parole per introdurre la legge sul diritto di voto nel 1965). Lo standard aureo era la macina che una parte dell'America aveva appeso al collo dell'altra. I suoi campioni, i repubblicani, si proclamavano il partito degli affari. Ma «l'uomo assunto in cambio di un salario è in affari quanto il suo datore di lavoro; il legale in una borgata di campagna quanto il consulente di una corporazione, il commerciante della bottega all'incrocio, quanto il mercante di New York... i minatori che scendono trecento metri sotto terra o salgono seicento metri su una scarpata e riportano dai loro nascondigli i metalli preziosi da riversare nei canali del commercio, sono uomini d'affari quanto i... magnati che nella stanza sul retro rastrellano il denaro del mondo».
Era un'opera d'arte americana, quel discorso sorto dalla sua terra scura come un verso di Whitman o la spietata ribalderia di Mark Twain. Era paesaggio, dramma sociale e religione, il tutto versato nello stampo rovente dell'orgoglio patriottico. La folla in ascolto vedeva i campi di granoturco e i pascoli delle praterie, nelle fluenti cadenze di Bryan; allora egli la sollevò sopra un continente di dolore sociale. Era l'oro, la sostanza dei Mida di Wall Street, a infliggere quelle sofferenze. Che ne sapevano, quelli che l'accumulavano, dell'America vera del sudore e della preghiera? Con quella celebre perorazione Bryan aveva dato al partito democratico, vittorioso o perdente che fosse, il suo nuovo vangelo. Quanto ai Mida, «risponderemo alla loro domanda di uno standard aureo dicendo loro "non calerete sulla fronte del lavoro questa corona di spine, non inchioderete l'umanità su una croce d'oro"». Senza pudore, portato dalla verità del Vangelo, Bryan si fermò, fece alcuni passi indietro e a braccia spalancate si mise nella posizione del Salvatore martirizzato. E il clamore scoppiò attorno a lui.
Non va scordato che alla Casa Bianca abbiamo un altro presidente seriamente cristiano che, nonostante i temi pacati, si carica di passione retorica per parlare alla gente comune. Certo, ha vinto New York. Ma ha vinto anche l'Indiana. E diversamente da Jackson, e diversamente da Bryan, Obama non ha mai voluto fare la guerra agli interessi monetari. Le sue inclinazioni a prendersela con Wall Street sono molto meno combattive di quelle di Franklin Roosevelt. Obama è trans-razziale, trans-sezionale, trans-ideologico. Crede in un grande abbraccio nazionale. Nei tempi duri che ci attendono di sicuro, a dispetto delle gemmule finanziarie di primavera, se riuscirà a essere riformista; se come desidera da lui la storia americana, riuscirà a rendere di nuovo il denaro morale, resta - come sapete già che avrei detto - tutto da vedere.