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Greenspan e Bernanke bocciati in teoria

di Pietro Reichlin

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23 maggio 2009

Questa crisi finanziaria non è certo la prima dal dopoguerra, ma si distingue dalle altre per la dimensione, il grado di propagazione e per essere avvenuta nel momento di massima fiducia nelle virtù dell'innovazione finanziaria. Gli ultimi governatori della Federal Reserve, Alan Greenspan e Ben Bernanke, sono stati fautori di questo processo d'innovazione, e tra coloro che non hanno voluto una maggiore regolamentazione.

Eppure, Ben Bernanke è un accademico che, come pochi altri, ha studiato a fondo la depressione del '29. In un lavoro del 1983, aveva criticato l'interpretazione di Friedman e Schwartz, secondo cui la recessione fu causata da una contrazione dell'offerta di moneta, facendo mancare la necessaria liquidità al sistema bancario. Secondo il governatore della Fed, invece, la crisi fu amplificata dalle difficoltà del mercato finanziario e dall'aumento dei costi d'intermediazione. La base del ragionamento di Bernanke è che i mercati finanziari sono imperfetti: i debitori e i creditori non hanno le stesse informazioni sulla qualità dei progetti d'investimento, gli strumenti d'assicurazione sono incompleti, i fallimenti sono inevitabili e le attività reali (come gli immobili) servono come collaterale nei contratti di debito.

Questi problemi sono stati studiati ampiamente nel corso degli ultimi quarant'anni, ma non sono sempre entrati a far parte della cassetta degli attrezzi dei macroeconomisti. Il merito di Bernanke è stato quello di porli all'attenzione dei policy makers. In particolare, le imperfezioni dei mercati finanziari determinano costi economici aggregati ("costi di agenzia"): uno scarso afflusso di capitali verso i progetti d'investimento profittevoli, un ampio scarto fra tassi d'interesse, una distorsione dei prezzi. I costi d'agenzia sono "anti-ciclici" (cioè aumentano nelle recessioni e diminuiscono nelle espansioni).
Ciò è dovuto all'acceleratore finanziario: poiché i valori delle attività costituiscono una garanzia (esplicita o implicita) dei crediti, una caduta generale dei prezzi provoca la contrazione del credito e, quindi, accelera la recessione. Date le premesse, ci si potrebbe chiedere come mai Bernanke (che è nel board della Fed dal 2002) non abbia saputo intervenire in anticipo per scongiurare i guasti di oggi.

La risposta è che la teoria di Bernanke consente di comprendere appieno i motivi per cui piccole perturbazioni negative (come una caduta dei prezzi delle case) possano generare pesanti effetti sui mercati finanziari e reali, ma essa non consente di spiegare perché le cose possano andare male per effetto dell'euforia dei mercati e dell'espansione del credito. La teoria basata sui costi d'agenzia ci dice che quando siamo nella fase alta del ciclo, il valore del collaterale è elevato, i costi di finanziamento delle imprese e dei consumatori sono bassi, e ciò è sufficiente a portarci verso il migliore dei mondi possibili. L'innovazione finanziaria offre maggiori opportunità d'assicurazione e di ripartizione dei rischi. Le cartolarizzazioni consentono alle banche di ridurre il rischio contenuto nell'attivo, i credit default swaps consentono ai creditori di assicurarsi contro i rischi d'insolvenza. Tutto ciò sembra essere un vantaggio ai fini della riduzione dei costi d'agenzia.

La crisi del 2007, tuttavia, è avvenuta come conseguenza di un'espansione della liquidità e dei prezzi delle attività, invece che a seguito di una loro contrazione. La trasformazione dei contratti di debito in titoli standardizzati scambiabili sul mercato ha ridotto gli incentivi al monitoraggio dei debitori. Il passaggio da contrattazioni bilaterali basate su relazioni durevoli a scambi di prodotti finanziari in condizione di relativa anonimità e di elevata concorrenza tra intermediari ha indotto una sottovalutazione generale del rischio. Infine, il fatto che le attività reali siano poste a garanzia dei debiti, ha indotto i singoli investitori a scegliere livelli di liquidità troppo bassi.

In generale, può essere che le scelte dell'intermediario siano ottimali da un punto di vista individuale, ma che non lo siano da un punto di vista collettivo. Ciò accade, ad esempio, quando la banca che aumenta il proprio attivo non tiene conto del fatto che la decisione di vendere in circostanze avverse ha un generale effetto depressivo sui prezzi e sui vincoli finanziari cui è soggetto ogni altro investitore. In altre parole, la singola istituzione finanziaria non "paga" interamente il costo sociale delle proprie azioni. Questo effetto si chiama "esternalità pecuniaria" (cioè un'esternalità trasmessa mediante i prezzi), e ha caratteristiche simili a quelle di molti altri fenomeni economici, non necessariamente collegati alla finanza.
In conclusione, la crisi di questi mesi è la prova ulteriore che il debito degli intermediari tende ad essere troppo elevato nelle espansioni e troppo basso nelle recessioni. Il fenomeno è esacerbato dall'azzardo morale, cioè dal fatto che, se le istituzioni finanziarie hanno fiducia di essere salvate dai governi o dalle banche centrali, possono permettersi di correre rischi maggiori. Come ogni altra esternalità, quelle che si producono nei mercati finanziari possono essere corrette in diversi modi: imponendo una tassa sulle transazioni, obbligando gli operatori ad assicurarsi, o ponendo limiti quantitativi (eventualmente condizionali al ciclo o alle carattersitiche degli intermediari) alla domanda d'attività. In generale, è necessario limitare il leverage di tutte le istituzioni finanziarie (anche non bancarie) che hanno un impatto significativo sul mercato.

  CONTINUA ...»

23 maggio 2009
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