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Il ritornello stonato dei mercati efficienti

di James Montier

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26 giugno

La teoria dei mercati efficienti (Ime è l'acronimo inglese, ndr) somiglia al pappagallo morto dei Monty Python. Non importa quanto ne lamentiate la dipartita, i credenti rispondono che sta solo riposando. In parte lo si deve all'elevato grado d'inerzia di cui godono le teorie accademiche. Una volta che si sono affermate, ci vuole un'infinità di tempo per liberarsene. Come ha osservato il fisico Max Planck, «la scienza avanza un funerale per volta».
L'Ime recita che tutte le informazioni sono riflesse nei prezzi correnti. È grave che esista ancora in quanto teoria accademica, e continui a imbottire di sciocchezze le teste degli studenti, ma i suoi danni peggiori derivano dal fatto che, come diceva Keynes, «gli uomini pratici sono solitamente schiavi di qualche economista defunto».

L'Ime ci ha lasciato una sequela di pessime idee che hanno influenzato ogni struttura del settore finanziario. Per esempio, il modello di capital asset pricing, figlio dell'Ime, ha trasformato in una vera e propria ossessione la misura dei risultati ottenuti. Separare l'alfa dalla beta è nel miglior dei casi irrilevante, e nel peggiore una distrazione dalla vera natura dell'investimento. Sir John Templeton aveva trovato le parole giuste: «Scopo di un investimento è il massimo del rendimento reale, al netto delle tasse». Ciò nonostante, invece di puntare sull'obiettivo, abbiamo generato un settore d'attività - i consulenti - che sa soltanto incasellare gli investitori nelle proprie categorie.
La valuazione ossessiva è altresì la fonte più cospicua di pregiudizi e distorsioni che ci sia nel nostro mestiere: il rischio per la carriera. Per un investitore costantemente valutato, il rischio si misura in base agli errori compiuti, generando così l'homo ovinus, una specie interessata unicamente a sapere dove si colloca rispetto al resto del gregge, e vivente incarnazione dell'editto keynesiano: «Per la reputazione, è meglio fallire da conformista che aver successo da anticonformista».

L'Ime è anche il fondamento della gestione del rischio, della teoria di prezzatura delle opzioni, del concetto di valore per l'azionista, e persino delle politiche di regolamentazione (i mercati sanno il fatto loro), tutte idee che hanno causato seri danni agli investitori.
Tuttavia, l'aspetto più insidioso dell'Ime è il consiglio che dà in merito all'origine dei risultati eccezionali. Sembra un ossimoro, ma davvero l'Ime enuncia chiaramente come raggiungerli. Servono informazioni interne e riservate, che sono illegali come si sa, oppure serve prevedere il futuro meglio di chiunque altro. Non esiste la benché minima prova che si possa vedere alcunché nel futuro. Ma il desiderio di superare le previsioni altrui ha depistato tutti quanti per decenni.
L'Ime ci dice anche che le opportunità saranno fugaci. Come mai? Perché astuti e razionali arbitraggisti faranno presto a portarle via. Questo evoca la vecchia barzelletta dell'economista e dell'amico che camminano per strada. L'amico nota un biglietto da cento dollari sul marciapiede. «Non può esserci», dice l'economista, «se ci fosse, qualcuno l'avrebbe già raccolto».

Una mentalità del genere incoraggia gli investitori a concentrarsi sul breve periodo, nel quale stanno le opportunità invece che sul lungo periodo nel quale sta il vero vantaggio di avere più informazioni.
L'Ime fallisce in modo spettacolare quando viene messa a confronto con il mondo reale. Una prova schiacciante a suo carico, di rado dibattuta in ambito accademico, è quell'elefante nella stanza che tutti ignorano: l'esistenza di bolle. Gli accademici ne sono talmente terrorizzati da arrivare alle peggiori esagerazioni pur di giustificarle. Che ci crediate o no, due economisti hanno addirittura scritto un saggio per sostenere che non c'era alcuna bolla quando all'inizio del decennio l'indice composito del Nasdaq superava quota 5mila.

Una società di gestione finanziaria, la Gmo, definisce una bolla come un minimo di due deviazioni dalla tendenza (reale). Stando all'Ime, eventi con due deviazioni standard dovrebbero accadere all'incirca ogni 44 anni. Tuttavia, dal 1925 in poi, gli analisti di Gmo hanno identificato oltre 30 bolle, leggermente più di una per triennio. Mentre i particolari e le tecnicalità di ciascuna differiscono, la dinamica sottostante è molto simile. Di sicuro la diagnosi ex ante delle bolle dà all'Ime un colpo mortale. Davanti a questo assalto spietato, i tifosi dell'Ime ripiegano sulla loro cosiddetta "bomba atomica": il fallimento, da parte dei dirigenti in attività, di superare l'indice. Tuttavia se ogni fund manager cerca di superare tutti gli altri in preveggenza, c'è poco da stupirsi se i risultati restano al di sotto delle previsioni. Una nuova ricerca mostra che il rischio per la carriera (perdere il lavoro) e il rischio per gli affari (perdere i fondi da gestire) sono i principali moventi degli investitori professionisti. Quanto a battere l'indice, non ci provano nemmeno.
Di sicuro è venuto il momento di cestinare l'Ime e la sua eredità. Ci riusciremo? Come diceva J.K. Galbraith, i mercati finanziari sono caratterizzati da una memoria cortissima, «sono pochi i campi dell'attività umana in cui la storia conta così poco come nel mondo della finanza».

26 giugno
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