Le previsioni di primavera sulle prospettive di crescita delle economie si sono rivelate molto negative, ben al di là di quanto non pochi governi sostenevano ancora fino a poche settimane orsono. Il fatto che la caduta libera delle economie sembri essersi arrestata ha fatto tirare un sospiro di sollievo a governi e osservatori, e ha indotto a prevedere (sperare?) una lieve ripresa per il 2010, che potrebbe secondo alcuni riportare la crescita, sia pure per pochi decimali, in territorio positivo.
In effetti l'attivismo dei governi, soprattutto di alcuni, delle banche centrali e dell'Fmi, hanno evitato che la crisi si traducesse in una catastrofica depressione. Tuttavia appare evidente che la risposta dei governi rimane tuttora insufficiente e che nel complesso non è stata del tutto adeguata. Alcune riflessioni sono possibili a commento dei dati riportati nel grafico qui a lato, che riportano semplicemente la somma algebrica dei tassi di crescita dei principali paesi nel periodo 2008-2010, durante il quale la crisi si è pienamente manifestata (i dati utilizzati sono quelli dell'Fmi).
È evidente la gravissima situazione di crisi del Giappone (-6,3 punti nei tre anni). In Giappone, infatti, anche il 2008 si è concluso con una crescita negativa (-0,6%, inferiore comunque al -1% dell'Italia), il 2009 sarà catastrofico, ma il 2010 è previsto in ripresa (+0,5) grazie agli interventi discrezionali decisi. Pesa sul Giappone il crollo delle esportazioni dovuto alla caduta del commercio mondiale, la rivalutazione dello yen in seguito ai disinvestimenti all'estero, ma anche l'insicurezza generale derivante dal ricordo del "decennio perduto" dopo la crisi immobiliare e finanziaria degli anni 90, che si riflette negativamente su aspettative e comportamenti.
Ma l'aspetto più interessante (e inquietante) riguarda il confronto tra Usa ed Europa. Come si sa, gli Usa sono stati l'epicentro della crisi e, secondo le accuse degli europei, i veri responsabili della stessa. Incisivi e indignati discorsi sono stati fatti per stigmatizzare il liberismo sfrenato e l'ingordigia anglosassone e sottolineare la superiorità dell'economia sociale di mercato e le garanzie del Welfare State europeo. Argomentazioni del tutto condivisibili in via di principio, e che personalmente condivido. Sta di fatto, però, che i risultati che l'Europa potrà esibire a fine 2010 saranno non solo deludenti, ma anche molto peggiori di quelli americani: -3,7 punti di riduzione del Pil nel triennio nell'area dell'euro (-3,2 nell'Unione Europea) rispetto al ben più contenuto -1,7% americano, segno evidente non tanto del fatto che l'economia americana è molto più flessibile di quelle europee, ma soprattutto del fatto che i governi europei nel loro complesso non hanno voluto e non hanno saputo intervenire con misure discrezionali adeguate. Dal conto suo, la Bce ha aumentato i tassi d'interesse ancora nel luglio 2008 (!) e ha sempre seguito (in ritardo) gli eventi, senza mai anticiparli. Al tempo stesso, le banche europee risultano imbottite di asset tossici parecchio più di quelle americane.
In sostanza, la leadership europea non si è resa conto della gravità di quanto stava accadendo e della necessità di coordinare sforzi e politiche fiscali in modo incisivo e innovativo, al fine di ridurre i danni ed evitare il peggio. E il peggio sta puntualmente arrivando in termini di minore crescita e di disoccupazione: ci vorranno diversi anni per recuperare i livelli del 2007.
In Europa abbiamo assistito alla scoppio della bolla immobiliare in Spagna e in Irlanda, alla crisi del mercato finanziario non solo a Londra (che non fa parte dell'euro) ma anche in Irlanda, alle gravissime difficoltà delle banche dell'Europa continentale, nonché al rischio di default di non pochi paesi dell'Europa dell'Est, il cui sostegno è stato affidato all'Fmi, e non assunto direttamente dall'Europa. Al tempo stesso, il crollo dell'economia tedesca mette i crisi il modello export-led su cui si è basato lo sviluppo della Germania dal dopoguerra, trascina con sé l'Italia fortemente dipendente dalle esportazioni in Germania, e che comunque per suo conto esibisce la peggiore performance di tutta la zona dell'euro, nonché della Ue e del G-7, Giappone escluso.
In sostanza è l'intero sistema economico europeo ad essere messo in discussione dalla crisi. In particolare, sarà possibile per la Germania continuare a perseguire una politica nazionale mercantilista che si concretizza in un surplus sull'estero pari a 5 punti di Pil? Che fine faranno le esportazioni tedesche (e non solo) se gli Usa cesseranno di svolgere il ruolo di consumatore d'ultima istanza? Potrà l'euro sopravvivere senza una politica fiscale federale e un bilancio federale? È possibile andare avanti con 27 sistemi tributari diversi, in un clima di concorrenza fiscale crescente?
Non poche altre domande potrebbero essere sollevate. Nel momento in cui è in corso la campagna elettorale per il Parlamento europeo, sono questi gli argomenti di cui sarebbe utile discutere. Ma in verità si parla d'altro, anzi non si parla di (quasi) niente di rilevante. Ma la crisi ha dimostrato e amplificato tutti i problemi derivanti dalla mancata effettiva integrazione dell'Europa. Nonostante tante affermazioni e convinzioni di superiorità, il nostro continente si avvia ad affrontare un periodo di grave crisi e crescenti difficoltà e insuccessi. È bene esserne consapevoli.