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Primo, riequilibrare i rapporti tra gli stati

di Ferdinando Targetti

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29 maggio 2009

La crisi attuale è una crisi sistemica che cambierà radicalmente la divisione dei rapporti tra stato e mercato? Alla domanda di Guido Tabellini risponderei che la crisi cambierà i rapporti tra stati e stati e quindi anche tra Stati e mercati.

Innanzitutto un cambiamento d'approccio riguarderà i sistemi di tutela sociale nei paesi anglosassoni. I sistemi privatistici di tutela sociale – si pensi alle assicurazioni sanitarie private o ai sistemi pensionistici in cui i contributi sono investiti nell'azienda in cui il lavoratore è impiegato, con la crisi di Borsa e gli straordinari fallimenti bancari e industriali cui abbiamo assistito – hanno mostrato di non offrire la sicurezza della prestazione e la redditività promessa, a differenza dei sistemi pubblicistici del cosiddetto modello renano e di quello socialdemocratico europeo.

Inoltre, durante la globalizzazione degli ultimi 25 anni, la legittimità morale della crescente diseguaglianza nella distribuzione del reddito all'interno dei paesi era data dal fatto che ricompense relativamente più elevate di prima venivano giustificate a fronte di rischi più elevati che derivavano dal competere in un mercato globale. La crisi però ha mostrato un'altra realtà: molte banche (e qualche impresa di particolare rilevanza economica) sono too big to fail. La conseguenza è stata che alti rischi hanno portato elevati profitti privati nella fase di boom e costi elevati a carico della collettività nella fase della crisi.

Ma assicurazione sociale pubblica e politiche perequative costano in termini di prelievo fiscale. Se le aliquote devono essere contenute e progressive, le basi imponibili devono essere ampie e la concorrenza fiscale bassa. Quindi s'impone la necessità di accordi internazionali che, per evitare il social dumping, prevedano forme di cooperazione, se non di armonizzazione dei sistemi fiscali, come recentemente sostenuto a più riprese anche da Mario Monti. I recenti accordi per il depotenziamento dei paradisi fiscali vanno in tal senso.

In secondo luogo va considerato che una delle ragioni della crisi è il modello di crescita dell'economia globale, basato sulla crescita americana tirata dal consumo a debito e sulla crescita cinese tirata dalle esportazioni. Il mercato internazionale ha aggiustato (sul fronte dei flussi di capitale, ma non dei cambi) gli squilibri temporanei delle bilance esterne, creando uno squilibrio di lungo periodo sia nel crescente indebitamento americano, sia nelle crescenti riserve valutarie cinesi. Il superamento di questo squilibrio richiede di aumentare dal lato americano e di ridurre da quello cinese la propensione al risparmio, e questo, in entrambe le sponde del Pacifico, richiede interventi politici sui mercati. Richiede inoltre un diverso ruolo del Sistema monetario internazionale di monitoraggio delle situazioni di squilibrio, non solo dei paesi piccoli in deficit, ma anche dei paesi grandi e dei paesi in surplus.

In terzo luogo assisteremo a un mutamento di equilibrio tra stati e mercati anche nel sistema finanziario e monetario internazionale. La teoria dell'efficiente autoregolazione dei mercati, anche di quelli finanziari, che, a detta dello stesso Greenspan, ha indotto i regolatori a non intervenire pur di fronte a un sistema bancario e finanziario che assumeva rischi crescenti e che s'indeboliva patrimonialmente, lascerà il posto a visioni meno ideologiche e laissez-faire dei mercati dei capitali.

Infine l'Europa. La crisi ha mostrato che in futuro l'Europa economica non potrà più essere considerata esclusivamente come un mercato unico, con istituzioni orientate esclusivamente in tal senso. Oggi le politiche economiche effettive dell'Europa si limitano infatti alla stabilità monetaria e al rafforzamento del mercato interno. La politica di sviluppo economico invece, basata sull'agenda di Lisbona, non dispone né di istituzioni, né d'incentivi adeguati a colmare il gap di crescita di produttività con Usa. La crisi ha aggravato la situazione di debolezza relativa dell'Europa, per il fatto che essa non dispone, a differenza degli Usa, né di strumenti anticiclici, né di strumenti anticrisi: si prevede che nel 2009 il Pil Usa cadrà circa del 3%, quello dell'Europa del 4%, dell'Italia del 5%, della Germania del 6 per cento.

Un'efficace politica dello sviluppo e strumenti efficaci - sia monetari che di bilancio - di politica anticiclica e di politica anticrisi implicano una devolution di poteri dagli stati nazionali a istituzioni europee e un maggior intervento sovrastatale sull'economia. Se l'Europa vorrà contare dovrà in tema di politiche economiche rivedere il rapporto tra Stati e mercato.

L'autore è docente di economia politica a Trento

29 maggio 2009
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