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Il mercato, imperfetto quanto inevitabile

di Orazio Carabini

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3 giugno 2009

Ancora non la si può chiamare euforia. Ma l'ottimismo che circonda gli ultimi dati sull'evoluzione congiunturale e sul ritorno alla normalità dei mercati finanziari stanno già mettendo in ombra quanto è successo nei mesi, o meglio negli anni scorsi. La voglia di superare una fase difficile, probabilmente la più dura dal Dopoguerra a oggi, rischia però di far dimenticare quello che la crisi ha insegnato. O forse ha solo rammentato a chi faceva finta, per convinzione, per innato ottimismo o per convenienza, di essersene dimenticato.
E cioè che il "mercato", nella sua versione turbocapitalista imposta al mondo dopo l'autodistruzione delle economie pianificate, non sempre è all'altezza delle aspettative. Nelle fasi di crisi tornano a galla i suoi difetti. Quelli che, in tempi normali, si tende a nascondere per non rinunciare ai benefici, indubbiamente consistenti, in termini di crescita, occupazione, progresso tecnologico che esso porta.
In primo luogo il mercato non ha una sua etica. Chi sostiene il contrario fa della retorica fine a se stessa. La crisi ha portato alla ribalta uno spettacolare campionario di truffatori: da Bernie Madoff, il mago degli hedge fund, a Jerome Kerviel, il trader di Société Générale, capaci di far sparire miliardi di dollari o di euro sotto gli occhi delle autorità di vigilanza, dei sistemi ispettivi interni, delle società di revisione. Ma i truffatori sono solo la schiuma di un inquinamento più profondo che riguarda i meccanismi di gestione delle banche e delle imprese in generale. Dove la cultura della massimizzazione del Roe (Return on equity) è stata portata all'eccesso in una corsa al profitto destinata a infrangersi sull'inevitabile ostacolo della sottovalutazione del rischio.
Già, perché per inseguire utili sempre crescenti a un certo punto è diventato necessario osare più di quanto fosse lecito. Con il solo obiettivo di remunerare gli azionisti ma soprattutto di garantire retribuzioni e gratifiche da nababbo ai banchieri e ai manager. Tutti, salvo poche eccezioni, presi da sfrenata ambizione e dal desiderio di estrarre dalla "loro" banca o impresa il massimo dei benefici in termini di stipendio, bonus, pensione, liquidazione, golden parachute, circoli del golf.
Il secondo insegnamento è che il mercato non si autoregolamenta. Chi ha sperato che gli operatori potessero decidere da soli quali fossero le regole da rispettare è rimasto deluso. Di fronte alle scappatoie che consentono di migliorare le performance, banchieri e manager se ne infischiano di livellare il campo di gioco per competere ad armi pari e dell'onta che ricade sul nome (name shame) quando si infrangono le regole. Conta il risultato. E più si riesce a tenere lontani i cani da guardia (le autorità di vigilanza), meglio è. Anche i meccanismi di consultazione degli operatori con cui sono state fatte le leggi in quasi tutti i paesi si sono tradotti troppo spesso in una delega di responsabilità da parte del legislatore e dei regolatori. Con il risultato che è prevalso l'interesse degli operatori stessi, non sempre coincidente con quello della collettività.
La terza lezione è che, quando qualcosa si rompe, il mercato non si aggiusta con le proprie forze. Sì, il Brambilla di Carate Brianza può fallire. Come può fallire la banchetta locale. Ma i "grandi" non cadono mai perché la politica non può permettere che succeda. È fallita la Lehman Brothers ma se qualcuno avesse il potere di riportare il calendario al 15 settembre nessuno ripeterebbe l'errore di allora. Le banche si salvano perché sono interconnesse (se ne crolla una, se ne porta dietro chissà quante altre) e perché bisogna evitare il panico tra i depositanti, con il conseguente "rischio sistemico". Le imprese, come la Chrysler o la General Motors, sebbene non abbiano saputo adeguare la capacità produttiva, le caratteristiche dei modelli e la rete distributiva ai nuovi livelli di domanda di automobili, devono essere salvate perché troppi posti di lavoro sono in gioco. E la politica non può permettersi si sfidare l'impopolarità.
Il mercato dunque non ha una sua etica, non si autoregolamenta e non si aggiusta. Però funziona, e soprattutto non ha alternative. Chi ora avverte «attenzione a non introdurre regole che lo imbrigliano» ha ragione solo in parte: non servono lacci e lacciuoli burocratici, obblighi insensati destinati ad aumentare il potere di veto di qualche valvassore. Ma non si può far finta che non sia successo nulla. La crisi scoppiata nel 2008 ha dimostrato che se si "lascia fare" troppo, il mercato si spinge oltre i limiti.
E allora non va imbrigliato, ma regolato meglio e sorvegliato di più. È sbagliato affermare che negli ultimi due decenni non c'erano abbastanza regole: è mancato invece l'enforcement, ovvero non si è rivelato all'altezza del suo compito chi, forte di un mandato pubblico, avrebbe dovuto farle rispettare. Sarà perché pochi osavano andare contro la cultura dominante della deregulation. Sarà perché il grado di collusione tra sorveglianti e sorvegliati poche volte nella storia è risultato alto come negli ultimi due decenni. Ma questa è la realtà: chi vigilava sul funzionamento dei mercati era troppo debole rispetto ai soggetti vigilati. Ma le regole sarebbero state più che sufficienti per authority determinate ad assolvere alle loro funzioni.
È vano sperare che il mercato cambi. I suoi difetti resteranno gli stessi. Tocca quindi allo stato impedire che producano danni costosi, se non irreparabili. Oggi di questo c'è bisogno: di legislatori che scelgano regole efficaci, di autorità di sorveglianza "occhiute", che vedano dove si annidano i rischi, di banche centrali che sappiano prevenire più che spiegare.
  CONTINUA ...»

3 giugno 2009
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