Ancora non la si può chiamare euforia. Ma l'ottimismo che circonda gli ultimi
dati sull'evoluzione congiunturale e sul ritorno alla normalità dei mercati
finanziari stanno già mettendo in ombra quanto è successo nei mesi, o meglio
negli anni scorsi. La voglia di superare una fase difficile, probabilmente la
più dura dal Dopoguerra a oggi, rischia però di far dimenticare quello che la
crisi ha insegnato. O forse ha solo rammentato a chi faceva finta, per
convinzione, per innato ottimismo o per convenienza, di essersene
dimenticato.
E cioè che il "mercato", nella sua versione turbocapitalista
imposta al mondo dopo l'autodistruzione delle economie pianificate, non sempre è
all'altezza delle aspettative. Nelle fasi di crisi tornano a galla i suoi
difetti. Quelli che, in tempi normali, si tende a nascondere per non rinunciare
ai benefici, indubbiamente consistenti, in termini di crescita, occupazione,
progresso tecnologico che esso porta.
In primo luogo il mercato non ha una
sua etica. Chi sostiene il contrario fa della retorica fine a se stessa. La
crisi ha portato alla ribalta uno spettacolare campionario di truffatori: da
Bernie Madoff, il mago degli hedge fund, a Jerome Kerviel, il trader di Société
Générale, capaci di far sparire miliardi di dollari o di euro sotto gli occhi
delle autorità di vigilanza, dei sistemi ispettivi interni, delle società di
revisione. Ma i truffatori sono solo la schiuma di un inquinamento più profondo
che riguarda i meccanismi di gestione delle banche e delle imprese in generale.
Dove la cultura della massimizzazione del Roe (Return on equity) è stata portata
all'eccesso in una corsa al profitto destinata a infrangersi sull'inevitabile
ostacolo della sottovalutazione del rischio.
Già, perché per inseguire utili
sempre crescenti a un certo punto è diventato necessario osare più di quanto
fosse lecito. Con il solo obiettivo di remunerare gli azionisti ma soprattutto
di garantire retribuzioni e gratifiche da nababbo ai banchieri e ai manager.
Tutti, salvo poche eccezioni, presi da sfrenata ambizione e dal desiderio di
estrarre dalla "loro" banca o impresa il massimo dei benefici in termini di
stipendio, bonus, pensione, liquidazione, golden parachute, circoli del
golf.
Il secondo insegnamento è che il mercato non si autoregolamenta. Chi ha
sperato che gli operatori potessero decidere da soli quali fossero le regole da
rispettare è rimasto deluso. Di fronte alle scappatoie che consentono di
migliorare le performance, banchieri e manager se ne infischiano di livellare il
campo di gioco per competere ad armi pari e dell'onta che ricade sul nome (name
shame) quando si infrangono le regole. Conta il risultato. E più si riesce a
tenere lontani i cani da guardia (le autorità di vigilanza), meglio è. Anche i
meccanismi di consultazione degli operatori con cui sono state fatte le leggi in
quasi tutti i paesi si sono tradotti troppo spesso in una delega di
responsabilità da parte del legislatore e dei regolatori. Con il risultato che è
prevalso l'interesse degli operatori stessi, non sempre coincidente con quello
della collettività.
La terza lezione è che, quando qualcosa si rompe, il
mercato non si aggiusta con le proprie forze. Sì, il Brambilla di Carate Brianza
può fallire. Come può fallire la banchetta locale. Ma i "grandi" non cadono mai
perché la politica non può permettere che succeda. È fallita la Lehman Brothers
ma se qualcuno avesse il potere di riportare il calendario al 15 settembre
nessuno ripeterebbe l'errore di allora. Le banche si salvano perché sono
interconnesse (se ne crolla una, se ne porta dietro chissà quante altre) e
perché bisogna evitare il panico tra i depositanti, con il conseguente "rischio
sistemico". Le imprese, come la Chrysler o la General Motors, sebbene non
abbiano saputo adeguare la capacità produttiva, le caratteristiche dei modelli e
la rete distributiva ai nuovi livelli di domanda di automobili, devono essere
salvate perché troppi posti di lavoro sono in gioco. E la politica non può
permettersi si sfidare l'impopolarità.
Il mercato dunque non ha una sua
etica, non si autoregolamenta e non si aggiusta. Però funziona, e soprattutto
non ha alternative. Chi ora avverte «attenzione a non introdurre regole che lo
imbrigliano» ha ragione solo in parte: non servono lacci e lacciuoli
burocratici, obblighi insensati destinati ad aumentare il potere di veto di
qualche valvassore. Ma non si può far finta che non sia successo nulla. La crisi
scoppiata nel 2008 ha dimostrato che se si "lascia fare" troppo, il mercato si
spinge oltre i limiti.
E allora non va imbrigliato, ma regolato meglio e
sorvegliato di più. È sbagliato affermare che negli ultimi due decenni non
c'erano abbastanza regole: è mancato invece l'enforcement, ovvero non si è
rivelato all'altezza del suo compito chi, forte di un mandato pubblico, avrebbe
dovuto farle rispettare. Sarà perché pochi osavano andare contro la cultura
dominante della deregulation. Sarà perché il grado di collusione tra
sorveglianti e sorvegliati poche volte nella storia è risultato alto come negli
ultimi due decenni. Ma questa è la realtà: chi vigilava sul funzionamento dei
mercati era troppo debole rispetto ai soggetti vigilati. Ma le regole sarebbero
state più che sufficienti per authority determinate ad assolvere alle loro
funzioni.
È vano sperare che il mercato cambi. I suoi difetti resteranno gli
stessi. Tocca quindi allo stato impedire che producano danni costosi, se non
irreparabili. Oggi di questo c'è bisogno: di legislatori che scelgano regole
efficaci, di autorità di sorveglianza "occhiute", che vedano dove si annidano i
rischi, di banche centrali che sappiano prevenire più che spiegare.
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