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Non è il '29 e lo storico Ferguson boccia il Nobel Krugman

di Niall Ferguson

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31 maggio 2009

Mercoledì scorso, il rendimento dei T-bond decennali del Tesoro americano – generalmente considerato l'indice di riferimento per i tassi a lungo termine – ha superato il 3,73%. Un tempo sarebbe stato considerato un livello piuttosto basso, ma con la crisi finanziaria non più. Alla fine del 2008 era sceso al 2,06%. In altre parole, i tassi a lungo termine sono saliti di 165 punti base nell'arco di cinque mesi (+81%). L'annuncio - coinciso con ammonimenti sulla salute fiscale degli Usa - ha innervosito la maggior parte dei commentatori, ma per me era una buona notizia. Poneva fine a una mia controversia con Paul Krugman. Bisogna essere coraggiosi o temerari per contraddire l'economista di Princeton e premio Nobel 2008. Ma se un cane può guardare un re, uno storico può qualche volta sfidare un economista. Un mese fa, a una tavola rotonda sulla crisi finanziaria alla quale partecipavamo entrambi, avevo affermato che «il deficit fiscale massiccio del 2009, superiore al 12% del Pil, e quindi l'emissione di enormi quantità di buoni nuovi di zecca» avrebbero portato al rialzo dei tassi a lungo termine proprio mentre la Fed cercava di tenerli bassi.

Prevedevo «un doloroso braccio di ferro tra politica monetaria e politica fiscale, non appena i mercati si fossero accorti di quanti buoni avrebbero dovuto essere assorbiti dal sistema finanziario quest'anno».

Guardato dall'alto in basso, ricevetti una risposta paternalistica: ero rimasto ai secoli bui dell'economia. Era «davvero sconfortante» che le mie nozioni di quella triste scienza non arrivassero neppure al 1937 (l'anno successivo alla pubblicazione della «Teoria generale» di Keynes) e men che meno al suo apice nel 2005 (anno in cui è uscito il manuale di macroeconomia del professor Krugman). Come poteva essermi sfuggito che la chiave della crisi stava nel «forte eccesso di propensione al risparmio rispetto alla propensione all'investimento»? «C'è una saturazione globale del risparmio - spiegò il professor Krugman - ecco perché non c'è alcuna pressione verso l'alto dei tassi d'interesse». Io non ho bisogno di lezioni sulla «Teoria generale», ma penso che al professore gioverebbe dare una rinfrescata al contesto storico di quell'opera. Ha appena ripresentato in libreria il suo «The Return of Depression Economics» ed è chiaro che gli conviene presentare la crisi attuale come una ripetizione degli anni Trenta. Ma così non è.

Il Fondo monetario internazionale prevede un calo del 2,8% del Pil americano nel 2009, e una stagnazione nel 2010. Niente a che vedere con l'inizio degli anni Trenta, quando il prodotto reale era crollato del 30 per cento. Fin qui, siamo in una grande recessione - paragonabile per dimensioni a quella del 1973-1975 - senza il crollo della globalizzazione cui s'era assistito allora. Il merito di aver evitato una seconda Grande Depressione va innanzitutto al presidente della Fed, Ben Bernanke, massimo esperto della crisi bancaria degli anni Trenta, che è riuscito a fermare una pandemia di bancarotte tra gli istituti di credito con una doppia dose di tassi a breve termine prossimi a zero e di espansione quantitativa, con un raddoppio del bilancio della Fed da settembre a oggi. Ed è certo che il piano di stimolo da 787 miliardi di dollari ha migliorato il Pil di questo trimestre. Ma lo stimolo rappresenta soltanto una parte del massiccio deficit del governo federale.

Da qui a dicembre si indebiterà per 1.840 miliardi di dollari, l'equivalente di circa metà della spesa federale e del 13% del Pil americano. Il paese non aveva avuto un deficit di queste dimensioni dalla Seconda guerra mondiale. Secondo il Congressional Budget Office, aumenterà di altri 10.000 miliardi nel corso del decennio. E persino secondo le previsioni assai rosee della Casa Bianca, nel 2017 il debito nazionale lordo supererà il 100% del Pil, anche senza tener conto delle passività fuori bilancio, come quelle dell'assistenza sanitaria e della previdenza sociale.

Lo sbigottimento del mercato delle obbligazioni non ci deve sorprendere: solo sul pianeta Eco-101 - il corso-base di macroecomia martellato nella testa di ogni studente universitario del primo anno - accade che una simile marea di obbligazioni non eserciti una «pressione al rialzo sui tassi d'interesse». Il professor Krugman mi aveva capito benissimo, ovviamente. «L'unica cosa che potrebbe far rialzare i tassi d'interesse - aveva ammesso durante il dibattito - è che la gente dubiti della solvabilità finanziaria dei governi». «Potrebbe»? O sarebbe meglio dire: «potrà»? Fatto sta che la gente, non ultimo il governo cinese, ne sta già dubitando. Sa che la politica fiscale americana implica enormi acquisti di titoli pubblici da parte della Fed quest'anno: non ci sono abbastanza acquirenti stranieri o interni per finanziare il deficit. Questa politica si chiama stampare denaro ed è quella tentata da molti governi negli anni 70 con conseguenze per l'inflazione che non serve essere storico per ricordare.

  CONTINUA ...»

31 maggio 2009
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