Si sta formando una sorta di senso comune sulle origini della crisi, di cui il dibattito sul Sole dà molto bene conto. Il professor Tabellini giovedì ha indicato alcune cause: «Un banale errore di valutazione» da parte di operatori incapaci di stimare correttamente i rischi; il modello che separa erogazioni dei prestiti da detenzione del relativo rischio, che comporta «ovvi problemi di azzardo morale»; le agenzie di rating, che «hanno un ovvio conflitto di interesse». E poi la remunerazione dei manager. E gli errori della regolamentazione, che hanno amplificato la pro-ciclicità delle banche, quanto all'erogazione dei prestiti (nella fase positiva, per Basilea) e alla vendita dei titoli (in quella di crisi, per il mark to market). Come non essere d'accordo.
Eppure - lo dico spinto dal bisogno di capire fino in fondo i nostri errori, e il futuro della comunità finanziaria – c'è ancora qualcosa di non chiaro. Quello che risulta alla fine, è che per un motivo o per l'altro abbiamo sbagliato tutti a dare un prezzo corretto ai rischi. Ma se è così, non è affatto banale, tutt'altro.
Il rischio - di credito - è in sé l'asset class più importante di cui vive il mercato finanziario. Non sono i bond argentini, o russi, o le azioni internet. È l'intero rischio di credito che è collassato, la materia prima di ogni scelta finanziaria, non una parte "eccentrica" di quel mercato. E questa è forse la novità vera della crisi. Un bel problema.
La possibilità di misurare il rischio, si dice, è ciò che ha portato l'umanità fuori dalle superstizioni e dal dominio degli aruspici. E il mercato finanziario mai come oggi è stato dotato di strumenti, intelligenze, organizzazioni di mercato, tecnologie di trasmissione di dati e di informazioni in grado di misurarli bene, i rischi, e di ridurre gli spazi dell'incertezza. È un mercato organizzato in modo tale che chi sbaglia il prezzo di un asset è punito prontamente da chi usa meglio di lui le informazioni.
E poi, non è forse vero che questo sistema finanziario è, per come è organizzato, quello che più di ogni altro si avvicina a quei modelli di concorrenza perfetta – libertà di entrata e uscita, informazione diffusa, pluralità di operatori - che ci insegnavano a Economia Uno? E allora non è più vero che la concorrenza porta ad adeguare sistematicamente i prezzi ai valori sottostanti, e a evitare l'instabilità?
Sono domande che mi sembrano non irrilevanti, ma a cui non trovo risposte del tutto convincenti nelle spiegazioni di senso comune. Per questo, mi rimane il dubbio che, al senso comune che si sta formando, sfugga - talvolta capita - qualcosa di grosso e complicato. Perché, per esempio, in realtà non siamo sicuri che il prezzo dei titoli oggi tossici fosse "sbagliato" per l'intrinseca tossicità di quei titoli. Se guardiamo i grafici, il valore (troppo alto) dei derivati di credito, formulati nelle investment banks, è andato esattamente in linea con i tassi (troppo bassi?) praticati dalle banche commerciali ai loro clienti.
E allora? Vuol dire che l'errore l'hanno fatto tutti, tutti insieme, e quindi bisogna capire se l'origine era nel mercato - secondario - dei derivati e delle cartolarizzazioni piuttosto che in quello - primario - del banale credito alle famiglie e alle imprese. Certo, quei prestiti finivano impacchettati, e quindi uscivano dai portafogli e dai rischi delle banche. Da qui il moral hazard. Ma anche qui non tutto è chiaro: perché, per esempio, le investment bank che li acquistavano, questi titoli poi tossici, non pretendevano un premio legato alle asimmetrie informative, di cui - sospettose come sono - erano ben al corrente, un premio di cui si parla peraltro nei manuali di finanza dagli anni 70? Davvero nelle sale operative delle banche americane e nei comitati crediti di quelle europee tutti insieme si sono fatti prendere, così a lungo, da comportamenti così non razionali, diciamo così autolesionistici?: le banche commerciali sbagliano sistematicamente i prezzi ai clienti sui loro prestiti (anche su quelli non cartolarizzati, si badi bene) e le investment banks se li comprano sottocosto?, su un mercato così concorrenziale?, su un mercato così sofisticato? È una spiegazione che spiega? In realtà apre altre domande, ancora più complicate di quelle a cui risponde.
Va ancora verificato bene, d'altra parte, quanto i tassi d'interesse e i prezzi dei derivati di credito fossero davvero "sbagliati". Oggi lo diamo per scontato, e ci affanniamo a capirne le ragioni giacché si sono corretti "per catastrofe", da fine 2007, e i titoli correlati sono diventati famosi per essere tossici. Gli spread delle banche commerciali - il sottostante dei titoli tossici - sono passati, sui crediti a qualità medio-bassa da meno di 100 punti base a quasi 2000. Sbagliati anche loro? Non è così chiaro - non lo era allora - quando i tassi bancari mostravano comunque una correlazione fortissima con tassi di default di imprese e famiglie stabilmente, dal 2003, ai minimi storici (sotto lo 0,5%, per la medesima categoria di prestiti), che sembravano convalidarli in pieno. Le banche, così, ne escono un po' meglio.
E forse allora l'origine della crisi va trovata non in tassi "troppo bassi", ma - più banalmente - nella discontinuità creata nell'economia reale dall'aumento dei prezzi di greggio e materie prime, che ha prodotto un'impennata dell'incertezza sui profitti delle imprese. E allora l'origine della crisi sarebbe di vecchio tipo (come il 1973?) amplificata sì dal mercato finanziario globale, ma di vecchio tipo.
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