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13 maggio 2009

All'indomani del salvataggio di Aig scrissi sul Sole 24 Ore (20 settembre 2008) che la crisi segnava la fine del capitalismo americano come noi l'abbiamo conosciuto. Oggi, a otto mesi di distanza, il dibattito iniziato da Guido Tabellini mi permette di ritornare su questo punto. E devo ammettere che rimango della stessa opinione, anzi sono ancor più radicato nel mio convincimento. Non penso affatto alla fine del capitalismo, ma a sostanziali cambiamenti nel modo in cui il capitalismo è vissuto negli Stati Uniti. E purtroppo questi cambiamenti non sono per il meglio. A farmi dissentire dalle opinioni di Guido Tabellini non è una diversità di vedute sulle cause della crisi. Anzi apprezzo molto e condivido la sua lucida analisi. Naturalmente ci sono differenze di enfasi. Io avrei maggiormente accentuato la responsabilità della politica monetaria espansiva di Alan Greenspan.

Avrei sottolineato anche il ruolo che il debito a breve ha avuto sul precipitare della crisi. Quello che mise in crisi Bear Stearns, Lehman, Merryl Lynch, e poi (all'apice della crisi) anche Morgan Stanley e Goldman non fu solo la leva finanziaria, ma l'enorme quantità di debito a breve.
Se Goldman Sachs, oggi dichiarata ampiamente solvente dallo stress test, rischiava di fallire a fine settembre non era perché aveva troppo debito in assoluto, ma perché aveva troppo debito a breve. In una situazione d'incertezza il creditore a breve ha un'unica scelta razionale: scappare. Per quanto elevato sia il rendimento offerto, su un orizzonte di pochi giorni non vale il rischio di un'insolvenza. Ecco perché nell'incertezza sia Morgan che Goldman videro la fuga dei creditori a breve. Per ripagare questi crediti tutte le investment banks si videro costrette a liquidare rapidamente parte dell'attivo, sopportando grosse perdite e quindi rendendo più probabile l'insolvenza vera. A parità di leva finanziaria, la quantità di debito a breve è un forte meccanismo d'instabilità sistemica che deve essere in qualche modo considerato per evitare una tragica ripetizione.

Ma si tratta di dettagli. Condivido la linea di fondo e la necessità di alcune riforme. Nonostante questa identità di vedute, però, non sono d'accordo sulla predizione che tutto tornerà come prima e meglio di prima. A differenziarmi da Tabellini è la mia prospettiva americana e, paradossalmente, la mia visione di political economy (dico paradossalmente perché il massimo esperto di political economy è lui).
Da una prospettiva europea, capisco che il capitalismo di domani non sembra molto diverso da quello di ieri. Il governo ha sempre influito massicciamente sull'economia e in particolar modo sulle banche. E il governo ha sempre pagato questa influenza con ampi sussidi (espliciti e impliciti) di varia natura. In questo contesto, l'intervento deciso dai vari ministri europei e in particolar modo l'intervento del governo italiano sono ben poco al di fuori dell'ordinario. Nel nostro paese la diffidenza contro i principi di mercato è ben diffusa sia tra la maggioranza che tra l'opposizione. Anche se la crisi sposterà un po' il pendolo, non si tratterà di una variazione sistemica.

Perchè le cose non torneranno come prima
Ben diversa è la storia negli Stati Uniti. Dalla vittoria di Reagan in poi si era affermato il principio che lo Stato era il problema, non la soluzione dei problemi. Si era affermato il principio che la disuguaglianza doveva essere tollerata per produrre incentivi migliori, perché questi incentivi migliori avrebbero generato crescita e benessere per tutti. Si era affermato il principio che lo Stato non aveva diritto d'intromettersi nel business privato. Drexel ed Enron erano state lasciate fallire, nonostante le implicazioni sistemiche di queste decisioni, perché la maggioranza degli americani credeva fermamente nel principio "chi sbaglia paga". Questo principio faceva tollerare all'americano medio le centinaia di milioni di dollari guadagnati dai top manager. Forniva le basi morali per un consenso sociale nel libero mercato che non aveva eguali in Europa.

Purtroppo la crisi (e ancor più la gestione della crisi) ha minato queste basi in un modo che io considero irreparabile. Come si fa ancora a credere a quei principi quando si vedono quegli stessi banchieri, che altezzosamente difendevano i loro compensi, chiedere allo Stato di accollarsi le perdite? Come si fa a credere in questi principi quando lo Stato interviene a giorni alterni dando l'impressione di favorire gli amici del governo? Come si fa a credere in questi principi quando il governo espropria i creditori di Chrysler con garanzie reali esercitando pressioni politiche che avrebbero fatto impallidire anche il peggior ministro democristiano?

La minaccia populista e la casta
L'americano non si fida più del sistema di mercato. Non solo il 65% degli americani vuole un tetto per legge agli stipendi dei manager, il 60% vuole un maggior coinvolgimento dello Stato nella gestione delle imprese. Non per fiducia nello Stato, ma per mancanza di fiducia nelle imprese. Questa mancanza di consenso sociale porta il capitalismo ad arroccarsi. Per sopravvivere di fronte alla minaccia populista, i capitalisti colludono con lo Stato. Scambiano favori. Il libero mercato si trasforma in una casta di potere economico (parte politica, parte privata) che si autosostiene. Non è un caso che due giorni dopo che il Congresso americano ha votato la tassa del 90% sullo stipendio dei manager, il governo ha offerto condizioni d'enorme favore ai pochi fondi privati ammessi a partecipare ai suoi programmi d'investimento.

  CONTINUA ...»

13 maggio 2009
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