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Confindustria / «Rischio Cina se non si cambia»

di Marco Alfieri

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10 aprile 2010
<a href="/SoleOnLine4/Finanza e Mercati/2010/04/banca-centrale-polonia-zloty.xml?uuid=c8285eec-43fe-11df-beb3-b277d7659aaf">La banca centrale polacca vende zloty per frenare il rialzo</a>


«Il mondo è cambiato. E pensare di mantenere le stesse regole degli ultimi vent'anni è semplicemente impossibile. Il vero rischio che abbiamo davanti come italiani, europei e americani, non è quello di chiudere questo o quello stabilimento, ma è la crescita della Cina. Dobbiamo prepararci a competere con Pechino, eliminando i dislivelli produttivi, altrimenti arriveranno loro in Italia e tra dieci anni ci detteranno le regole…».
Dialogando con i sindacati, certo, «ma loro devono essere parte della soluzione invece che ripetere le solite cantilene. Di dire questo non si può fare, e questo non si può chiudere, devono lavorare per il sistema…». Prendiamo Termini Imerese: «Il punto è mettere quei lavoratori nelle condizioni di farcela dopo la chiusura dello stabilimento a fine 2011». Lo stesso vale su Pomigliano, su cui Fiat investirà 700 milioni per produrre la futura Panda, «garantendo le nuove condizioni di mercato», tassativo.
Con la solita schiettezza in maglione blu, Sergio Marchionne ieri da Parma ha fatto discutere tutti con un piglio davvero poco italico. Anzitutto il leader della Cgil Guglielmo Epifani, suo compagno di tavola rotonda, che poco prima aveva chiesto reciprocità nei mercati mondiali. «Perchè se noi andiamo all'estero ma gli altri non vengono, se non ci sono capitali internazionali che fanno crescere la domanda di investimenti e se il destino dell'auto in Italia è legato solo al destino di una azienda (Fiat), la cosa non funziona e non ne usciamo». E poi, sempre a proposito di Cina: «vorrei che là ci fosse anche libertà di associarsi», chiosa Epifani, che poi ha chiesto al ministro Tremonti di ridurre gradualmente dall'Irap il costo del lavoro. «Apprezzo il tuo interesse per migliorare la vita in Cina - ribatte Marchionne - ma stiamo confondendo i ruoli: la cosa importate è garantire la competitività di questo paese nei prossimi due anni, seriamente, senza trovare scuse…».
Le guerre di mercato in giro sono forsennate. L'ultima è l'alleanza "carolingia" tra Daimler e Renault, «la prima di parecchie mosse», commenta il ceo di Fiat. «L'abbiamo fatto noi con Chrysler l'anno scorso, lo stanno facendo loro e ce ne saranno altre. La cosa importante - prosegue - è che Fiat si sia mossa prima e l'abbia fatto in una maniera intelligente per posizionarsi». Una minaccia incombente sul segmento delle auto più piccole e per Alfa? «Tutti i concorrenti lo sono», ammette Marchionne. «Ce lo aspettavamo che sarebbero venuti. Ma l'Alfa è veramente l'asso che abbiamo nelle mani, cerchiamo di giocarlo bene». E soprattutto, «cerchiamo di non picchiare questa azienda che sta cercando di competere». «Figurarsi - controreplica il segretario della Cgil - vorrei solo che investiste di più in Italia». «Su 8 miliardi che spenderemo nei prossimi due anni, i 2/3 saranno in Italia. Più di così non posso fare…». Quanto al possibile spin off della divisione auto, «il 21 aprile si avvicina, aspettiamo e vediamo», conferma Marchionne.
Anche con il commissario Ue, Antonio Tajani, il ceo del Lingotto ha incrociato le lame, punzecchiandolo sul «mai implementato» piano europeo per l'automotive. Poi i due si sono chiusi in una stanza per discutere del post Fiat a Termini Imerese. Sul tavolo potrebbe esserci un contributo europeo per lo sviluppo dell'auto elettrica. Molto più ermetico, e imbarazzato, Marchionne è apparso alla domanda sui ritardi di pagamento verso i fornitori di Fiat formulata dal direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli: «attuo solo termini stabiliti ai tempi di Valletta...», glissa il super manager.
Insomma nicchie, player globali e (debole) cornice europea. C'è stato tutto questo e altro ancora dentro alla seconda tavola rotonda della giornata. Ad esempio la percezione, evidente, del tramonto dell'export tradizionalmente inteso (e decisivo per la nostra manifattura) e la lenta ma necessaria virata verso l'internazionalizzazione. A dirlo, insieme a Sonia Bonfiglioli, ad della Bonfiglioli riduttori, una media impresa che ha deciso di produrre laddove c'è una domanda da soddisfare dei propri clienti (mantenendo il cuore in Italia), il patron di Piaggio Roberto Colaninno. «Quattro miliardi di persone hanno deciso di cambiare le proprie prospettive di vita aprendosi al consumo», spiega il presidente di Alitalia. «D'ora in poi sarà la loro domanda a fare la nostra offerta in termini di costi e organizzazione. O ci diamo un tempo breve per cambiare, o usciamo dal circuito...».

10 aprile 2010
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