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Festival dell'Economia 2008: «Democrazia e Mercato»
 
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Quei leader senza democrazia

di Alessandro Merli

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28 maggio 2008

Spesso le potenze emergenti sono chiuse ai diritti civili. E nell'euforia delle bolle gli scambi finanziari travolgono i controlli

Prima il mercato o la democrazia? Meglio la Russia di Eltsin e poi di Putin – che ha abbracciato, almeno formalmente, le istituzioni della democrazia ma dall'economia centralizzata è passata a un sistema oligarchico che è difficile definire di mercato – o la Cina di Deng Xiao Ping e oggi di Hu Jintao? Pechino resta un regime autoritario, ma le riforme economiche le ha fatte per davvero, tanto che oggi è una potenza globale che fa paura a tutti, e che probabilmente è la ragione stessa per cui ora ci troviamo a dibattere del rapporto fra mercato e democrazia.

«Ci eravamo abituati a credere che non ci potesse essere mercato senza democrazia, ma ci siamo dovuti ricredere», ha scritto Tito Boeri, economista dell'Università Bocconi, uno dei fondatori di lavoce.info e responsabile scientifico, ma sarebbe meglio dire uno degli ideatori, del Festival dell'Economia di Trento, insieme a Innocenzo Cipolletta. Un Paese senza democrazia, come il Cile del generale Augusto Pinochet, è stato l'isolato portacolori dei mercati in America Latina ed è tuttora, dopo la transizione alla democrazia, l'esempio per tutto il continente. Ma è con la Cina che il caso del mercato senza democrazia è diventato eclatante. Tuttavia, continua Boeri, «il fatto che esistano al mondo mercati senza democrazia non significa che un'economia di mercato possa sopravvivere a lungo senza democrazia. La crescita economica, misurata nell'arco di decenni, sembra essere più forte nei regimi democratici che in quelli totalitari». Al tempo stesso, non tutte le democrazie sanno regolare e difendere i mercati con le istituzioni necessarie e adeguate. Come ricorda Cipolletta, «mercato e democrazia devono tornare a procedere di pari passo, e per questo è necessario uno sforzo di comprensione dei meccanismi che regolano entrambi».

Il rapporto fra democrazia e mercato è al centro del dibattito degli economisti, ma in misura crescente anche dei politici (basta pensare al caso del saggio del ministro dell'Economia, Giulio Tremonti) e dell'opinione pubblica.
Anche perché, nell'ultimo quarto di secolo, democrazia e mercato hanno avuto un impulso parallelo. Fra il 1975 e il 2002 è quadruplicato il numero dei Paesi che vivono in un regime democratico. Nello stesso periodo, il commercio mondiale è passato dal 7,7 al 19,5% del Pil globale, un riflesso della diffusione e dell'apertura dei mercati. La democrazia favorisce la liberalizzazione economica e degli scambi: gli esempi più chiari vengono proprio dall'America Latina dopo la democratizzazione progressiva del continente negli anni 80 e dall'Europa centrale dopo la caduta del Muro di Berlino e fino all'ingresso nella Ue (ma non dai Paesi, che partivano in condizioni analoghe, dell'ex Urss).

Francesco Giavazzi e Guido Tabellini, colleghi di Boeri alla Bocconi e che sono entrambi fra i relatori del Festival di Trento, hanno studiato il rapporto fra liberalizzazione economica e politica e concluso che è più probabile che sia la democrazia a promuovere il mercato che non viceversa. E tuttavia, guardando proprio agli esempi della Cina e della Russia, constatano che è la prima la vera storia di successo: è probabile, sostengono i due, che i migliori risultati si abbiano partendo dal mercato e arrivando alla democrazia che non viceversa. Anzi, a volte la liberalizzazione politica può essere inizialmente di ostacolo alle riforme. Assai di più se il sistema politico è ostaggio di un sistema elettorale mal congegnato, o del potere delle lobby e dei gruppi d'interesse e di pressione. Le storture del rapporto fra mercato e democrazia saranno anch'esse oggetto di dibattito a Trento.

Sul fatto che la sequenza delle riforme conti davvero era meno convinta Margaret Thatcher. L'ex primo ministro inglese, proprio osservando gli albori della democrazia in Russia e dell'economia di mercato in Cina, era solita dire che «non importa dove si comincia, perché alla fine, comunque, una condurrà all'altra». Due economisti americani, Barry Eichengreen, dell'Università di California a Berkeley, e David Lebang, dell'Università del Colorado, hanno osservato i dati relativi a 150 Paesi dal 1870 al 2000 (comprese quindi le due epoche d'oro della globalizzazione a cavallo fra i due secoli passati e nell'ultimo quarto di secolo) e hanno concluso che le democrazie commerciano più delle dittature e tendono a rimuovere i controlli sui movimenti di merci e di capitali, ma che a sua volta la globalizzazione, sia commerciale sia finanziaria, promuove la democrazia.

Ma persino il grande difensore della globalizzazione, l'economista indiano Jagdish Bhagwati, esprime riserve sul fatto che la globalizzazione finanziaria sia tutta "buona". E le conseguenze economiche e sociali dello scoppio delle sempre più frequenti bolle degli ultimi anni ne alimenta i dubbi. «L'esperienza recente - sostiene Harold James, storico del sistema monetario internazionale dell'Università di Princeton - sembra presentare qualche eco degli anni 80 e del periodo fra le due guerre mondiali. Le crisi finanziarie tendono a screditare il regime in vigore al momento e ritenuto responsabile per le scelte che conducono alla crisi». La reazione, dice, potrebbe essere quella che già osserviamo in qualche Paese latinoamericano: una forma di democrazia, ma nazionalista e populista, si schiera contro il liberalismo, l'apertura e l'internazionalismo. Un rischio che, potremmo aggiungere, vista l'aria che tira in Europa e negli Usa, va ben al di là dei confini dell'America Latina.

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